> "A-ccogliere"

Il verbo “accogliere” è composto da cogliere con la “a” come rafforzativo: a-ccogliere. Quando parliamo di accoglienza, parliamo di qualcosa che va ben oltre un'ospitalità abitativa. Accogliere significa prendere l'altro, gli altri, ciò che è altro e unirlo a me, al mio mondo. Due o più soggetti, quando si accolgono, hanno l'opportunità di divenire, come un insieme, un nuovo soggetto. Io con te, non sono più come io senza te. Tu con me non sei più come tu senza me. È una nuova qualità di vita.
Per molti di noi, quando si entra nell'argomento accoglienza, il pensiero corre a chi, nella situazione attuale vive nel bisogno, n maggiori difficoltà. L'accoglienza sembra mettere alla prova la nostra generosità. Si vengono a creare in questo modo delle relazioni asimmetriche, cioè chi è nella condizione di aiutare, ospitare, darsi da fare ecc. e chi invece si trova nella condizione di ricevere.
Da qui, all'identificazione degli altri secondo il loro disagio il passo è breve. Intendo dire che purtroppo siamo ormai abituati a categorizzare le persone: alcolista, senza tetto, precario, detenuto, tossicodipendente, disabile, immigrato e così via.
Occorre subito dire che, in questo modo di considerare gli altri, schedandoli, risiede il principio dell'ingiustizia e, in ultima analisi, la radice dell'inaccoglienza. Gli altri sono persone e ogni persona ha un mondo di vissuti che va ben al di là del suo disagio. Pertanto accogliere significa vedere in colui che noi chiamiamo alcolista una persona che ha avuto problemi con l'alcool, nel detenuto, uno che ha avuto delle vicende  con la giustizia, nell'immigrato, una persona che viene da un altro paese, da un'altra cultura ecc. ed è arrivato fino a noi per cercare di migliorare la sua vita.
È questa base di parità che ci consente di essere nella giustizia. Giustizia, appunto, perché la realtà dell'altro non si esaurisce in un solo aspetto. Considerarci così alla pari nella dignità, consente ad ognuno di a-ccogliere, di unirsi al mondo dell'altro, di vivere il mondo dell'altro come una dilatazione, un arricchimento del proprio mondo. 
Rompere con i mondi chiusi significa entrare decisamente in una “cultura plurale”, in un modo non univoco di vedere le cose; significa riconoscere che nessun uomo e nessuna donna possono essere considerati clandestini sulla terra. Significa realizzare qualsiasi progettualità anche politica a partire dal PRINCIPIO VITA – VITA INSIEME. Significa prendere congedo dagli stereotipi dei pregiudizi onnicomprensivi.  

Può sembrare strano, ma affermare, ad esempio, che una persona è brava, senza volerlo, possiamo mettere in atto qualcosa di ingiusto. È brava sempre, in tutto? In tutti gli ambiti? Perché e per chi è brava?  Quella persona che ha avuto problemi con l'alcool, ha sofferto di scompensi affettivi, in qualche circostanza ha avuto manifestazioni di violenza, ma scrive  poesie stupende , ha una sensibilità e un'intelligenza davvero straordinarie.
E colui che consideriamo cattivo, davvero è cattivo in tutto?...Non ha proprio nulla di buono da esprimere?
Siamo pieni di prevenzioni stereotipate! Nei luoghi più quotidiani, ma anche nelle chiese, spesso s'incontrano persone che senza mai essersi mosse dal proprio ambiente, hanno dei giudizi già prefabbricati sull'islam, sul buddismo, sulle culture d'Africa, su altre tradizioni spirituale, su altre società...
Una questione spinosa che ha impedito l'accoglienza nel nostro paese e nelle nostre comunità è la cosiddetta “questione identitaria”. C'è chi affronta la vita partendo da presupposti differenti dai nostri. Ebbene, qualcuno ci fa credere che a causa di questa pluralità di approcci, poco alla volta la nostra cultura e la nostra visione della vita ( ammesso e non concesso che anche tra di noi o in noi stessi vi sia una sola visione della vita) vengono private della loro specificità. A questo punto si entra in ciò che viene chiamato “complesso dell'accerchiamento”: tutti ci stanno attaccando, di conseguenza noi dobbiamo difenderci da tutti. Nel corso di una lectio divina una signora che si manifestava come una persona molto pia, senza peraltro mettersi in ascolto del testo biblico su cui stava pregando, si mise a parlare di “invasione” in riferimento ai migranti che quotidianamente incontriamo nei nostri paesi, concludendo inoltre che difronte a questo fenomeno era dovere cristiano difenderci. Pura ideologia leghista secondo cui la fede altro non è che una bandiera da sbattere in faccia a chi non è come te. Dispiace notare che pochi pastori, pochi vescovi e sacerdoti, abbiano messo in chiaro che il vangelo è altra cosa da questi prodotti di sottocultura.
A mio modo di vedere, smetterei di parlare di identità sia essa culturale o religiosa, anche perché ogni persona appartenente a qualsiasi compagine ha la sua idea di identità che in buona parte non corrisponde a quella degli altri suoi congiunti o correligionari.
Piuttosto che all'identità, preferirei riferirmi alla narrazione. La narrazione è ciò che concretamente la tua cultura o la tua fede ti fa vivere. Raccontami la tua vita, la tua esperienza e da questa comprenderò ciò che è valido anche per me, oltre che per te. La narrazione infatti ha come riferimento il vissuto concreto, naturalmente limitato all'esperienza di chi la vive e la condivide con altri. In questo caso il limite consente di bandire l'aggressività dell'identità rigida, ma costituisce piuttosto un invito ad unire la tua narrazione alla mia. L'identità tende ad imporsi escludendo quella altrui per non soccombere, la narrazione invece esige che anche le altre si uniscano perché le differenze diventino ricchezza di umanità.
Il Regno di Dio, così come ne ha parlato Gesù nel vangelo esprime un'identità rigida o non è piuttosto una pluralità di narrazioni, tante quante Gesù ha incontrato nei volti e nelle storie delle persone che sono entrate in contatto con la sua stessa narrazione?
A-ccogliere: prendere l'altro, gli altri, ciò che l'altro è, unirlo a me, al mio mondo. Lasciarmi prendere dall'altro, unirmi a lui, al suo mondo.
Può sembrare strano, ma occorre dire che il punto di forza per l'accoglienza non è ciò che di me o dell'altro si conosce. Il punto di partenza è l'inconoscibile, l'incomprensibile sia di me che dell'altro. C'è qualcosa di me che non conosco, che non comprendo. C'è qualcosa dell'altro che non conosco, che non comprendo. Entrambi abbiamo in comune il nostro mistero, quella zona del sé che tutta l'umanità ha in comune con i propri simili e con ogni essere vivente, da cui può scaturire veramente qualcosa di nuovo, di inedito, qualcosa di  interessante. Ecco allora che l'accoglienza esige imparare a frequentare le profondità del mistero dove appunto albergano, slanci e bassezze, sentimenti ed emozioni, affetti e legami, significati e domande di senso, angosce e dolori, gioie e speranze, dignità e umiliazioni... L'accoglienza esige che prima di aprire le porte di casa siano aperte le porte dei cuori. Se non impariamo ad attingere alle profondità, l'altro sarà sempre un intralcio sulla mia strada.
Nel '94 ebbi occasione di visitare il villaggio ebraico-palestinese fondato da p. Hussar, Nevé Shalom – Waat as Salam – la collina della pace – dove convivono il 50% di israeliani e il 50% di Palestinesi; due popoli e tre religioni. Quel villaggio è divenuto un laboratorio per l'elaborazione pacifica dei conflitti. Non dimenticherò mai uno spazio ricavato ai bordi del villaggio chiamato Dumia, che significa “silenzio”. Una cupola a semisfera con base circolare e tre punti di luce nella volta del soffitto, all'esterno, qualche albero e un po' di verde. Potrebbe  essere una moschea, una chiesa, una sinagoga o tutt'altro. Semplicemente un luogo di silenzio in cui sostare quando i sentimenti di aggressività e rifiuto dell'altro diventano particolarmente virulenti, anche a motivo della conflittualità in atto tra i due popoli, Israele e Palestina. La Dumia è fu voluta da p. Hussar perché il silenzio unisce. Questo intuì p. Hussar quando diede inizio a Nevé Shalom. 
Troppe parole banali, troppi luoghi comuni, frasi fatte, pensieri di pancia, stolta propaganda politica in questi anni ha reso ottusi il cervello e il cuore. Se imparassimo davvero il silenzio che ascolta le storie, il silenzio che guarda i volti, il silenzio in cui le urla si decantano, forse i nostri mondi chiusi potrebbero generare una nuova armonia.
Infine segnalerei come punto di forza per l'accoglienza “la fragilità”. L'esperienza ha sempre insegnato che i punti di maggiore criticità sono i luoghi di maggiore creatività. Chi non sta bene cerca di elaborare il cambiamento per superare la sua situazione. Chi ha sofferto, chi si sente incompleto, chi ha attraversato momenti difficili è portato a comprendere meglio gli altri perché conosce la vita per esperienza diretta. Insomma, per lui la solidarietà non è solo una parola! Ecco allora che le ferite umane, in tutti gli ambiti, possono diventare luoghi di condivisione e di cura.
Il soggetto attivo e passivo dell'accoglienza è l'ospite. Ospite è un termine che vale sia per chi è accolto come per chi accoglie. La verità delle cose è che quando si parte dall'umanità, vale a dire dal senso della propria parzialità, o se si vuole, dalle ferite che ognuno porta nella sua storia, ognuno è accolto e ognuno accoglie. L'altro, gli altri, ciò che è altro è unito a me, fa parte di me, è me. Io sono preso dall'altro, sono unito a lui, sono nel suo mondo, sono lui.
         Silvano Nicoletto
           31.03.2014