Marola (RE), 26 luglio 2013
La Chiesa e i poveri
Don
Primo Mazzolari e la strada conciliare…
di Bruno
Bignami
1. Mazzolari nel solco della tradizione cristiana
Nel 1960 l’editrice
La Locusta di Vicenza pubblicava un piccolo opuscolo di don Primo
Mazzolari intitolato La parola ai poveri. Si trattava di
alcuni scritti del parroco di Bozzolo da poco scomparso e di una
raccolta di frasi dei Padri della Chiesa curata da Mazzolari stesso.
Il testo rivela la particolare premura con cui vescovi e santi dei
primi secoli hanno annunciato il vangelo dei poveri. Di S. Basilio,
ad esempio, si riportano gli interrogativi di un’omelia: «Che cosa
risponderai a Dio, tu che vesti i muri e non vesti il tuo simile? Tu
che orni il tuo cavallo e non hai uno sguardo per il tuo fratello in
miseria? Tu che lasci marcire il tuo grano e non nutri chi ha
fame?»1.
La frase presa da Il ricco insensato è significativa: «Il pane che tieni per te è dell’affamato». Oppure è citata la riflessione sapienziale di S. Ambrogio secondo cui la terra ci rende tutti uguali: «Il mondo è stato creato per tutti: per i ricchi e per i poveri. La natura non fa distinzioni perché ci genera tutti poveri. Noi non nasciamo col vestito, né con l’argento e l’oro. Nudi nasciamo, bisognosi di cibo e di vestito; e nudi ci riceverà la terra. (…) Scavate la terra e fatemi vedere il ricco»2. Nella stessa opera il vescovo di Milano se la prende con i ricchi: «Il povero ti domanda un pezzo di pane e il tuo cavallo è trattato meglio di lui. Ti dilettano gli stucchi preziosi, mentre gli altri non hanno da mangiare. Quale giudizio, o ricco, attiri sul tuo capo!»3. C’è spazio anche per stralci di omelie S. Giovanni Crisostomo, che associa cena eucaristica e opera di misericordia: «Chi disse: “questo è il mio corpo”, è lo stesso che disse: “voi m’avete visto affamato e non m’avete dato da mangiare” e “ogni volta che avete rifiutato di farlo a uno di questi miseri è a me che l’avete rifiutato”. Dio non ha bisogno di calici d’oro, ma di cuori d’oro»4. Si riportano citazioni dalle omelie anche del vescovo e dottore S. Agostino: «Il superfluo dei ricchi è il necessario dei poveri. Possedere il superfluo è quindi possedere il bene degli altri»5. «E’ un dovere, nel giorno del digiuno, fare elemosina. (…) Che cosa vi è di più ingiusto che far servire a una sporca avarizia le restrizioni del digiuno?»6.
La frase presa da Il ricco insensato è significativa: «Il pane che tieni per te è dell’affamato». Oppure è citata la riflessione sapienziale di S. Ambrogio secondo cui la terra ci rende tutti uguali: «Il mondo è stato creato per tutti: per i ricchi e per i poveri. La natura non fa distinzioni perché ci genera tutti poveri. Noi non nasciamo col vestito, né con l’argento e l’oro. Nudi nasciamo, bisognosi di cibo e di vestito; e nudi ci riceverà la terra. (…) Scavate la terra e fatemi vedere il ricco»2. Nella stessa opera il vescovo di Milano se la prende con i ricchi: «Il povero ti domanda un pezzo di pane e il tuo cavallo è trattato meglio di lui. Ti dilettano gli stucchi preziosi, mentre gli altri non hanno da mangiare. Quale giudizio, o ricco, attiri sul tuo capo!»3. C’è spazio anche per stralci di omelie S. Giovanni Crisostomo, che associa cena eucaristica e opera di misericordia: «Chi disse: “questo è il mio corpo”, è lo stesso che disse: “voi m’avete visto affamato e non m’avete dato da mangiare” e “ogni volta che avete rifiutato di farlo a uno di questi miseri è a me che l’avete rifiutato”. Dio non ha bisogno di calici d’oro, ma di cuori d’oro»4. Si riportano citazioni dalle omelie anche del vescovo e dottore S. Agostino: «Il superfluo dei ricchi è il necessario dei poveri. Possedere il superfluo è quindi possedere il bene degli altri»5. «E’ un dovere, nel giorno del digiuno, fare elemosina. (…) Che cosa vi è di più ingiusto che far servire a una sporca avarizia le restrizioni del digiuno?»6.
2. L’alternativa tra amore ed egoismo
Una domanda è sottesa frequentemente
nell’esperienza del parroco di Bozzolo: quale sguardo riservare
all’altro? E l’altro
assume di volta in volta un volto differente: a Cosel nel 1920 sono i
militari di eserciti stranieri che si contendono il territorio7,
negli anni ’30 sono i fratelli protestanti8,
nell’immediato dopoguerra sono gli italiani che hanno sostenuto il
fascismo e per i quali don Primo chiede una pacificazione nazionale9,
in diverse occasioni sono i comunisti contro i quali giunge
anche una scomunica da parte della chiesa10,
quasi sempre sono i poveri nei panni del parrocchiano, del soldato
semplice, dell’ebreo perseguitato, dell’affamato,
dell’alluvionato, del bisognoso, del disoccupato.
Insomma, l’altro si presenta agli occhi di
Mazzolari con esigenze che chiedono una risposta tempestiva. E’
interessante raccogliere tra i suoi scritti alcune considerazioni al
riguardo.
Innanzi tutto il credente è chiamato a
condividere le situazioni di bisogno. Che si tratti di guerra o di
povertà o di altro, la carità chiede un ascolto che sa mettersi
nelle vesti del fratello. Non si guarda l’altro dal di fuori, con
l’aria di chi vuol giudicare. L’esperienza ha sempre molto da
insegnare. Partire dal bisogno degli altri è condizione per non
chiudersi in difesa intorno ai propri beni e alle proprie certezze11.
L’indifferenza è uccisione del fratello, come già per Caino12.
Proprio la condivisione delle situazioni di bisogno e la gratuità
del proprio interessarsi restituiscono anche il diritto di
parola:
Davanti al presepio, come nella
taverna di Emmaus, è qualcuno solo chi ha niente. Gli può soltanto
parlare uno che ha niente. Se uno fa gli affari su quelli che muoiono
in trincea o in mare, non ha diritto di parlare. Se uno non ha cuore
per chi ha perduto la casa, la patria, la chiesa… non ha diritto di
parlare. Se uno non ha fame e sete di giustizia per tutti i
depredati, per tutti gli oppressi, non ha diritto di parlare. Io non
ho diritto di parlare. Il mio benessere mi oltraggia: il mio egoismo
mi schiaffeggia: la mia comodità mi diminuisce fino a togliermi ogni
diritto di parola13.
La più grande ricchezza data da Dio al cristiano
è la comunione «con l’umanità lacerata e crocifissa». Questo
atteggiamento dà voce alla preghiera autentica e fa aprire gli occhi
sulla realtà oggettiva, ben diversa da quella che uno potrebbe
sognarsi14.
La tentazione che si presenta, subdola o
dichiarata, è quella di considerare l’altro come un nemico. E’
questa l’immagine che nella storia ha giustificato il ricorso alle
armi per qualsiasi motivo, anche per interessi privati o di parte. La
logica dell’altro come nemico è strettamente imparentata alla
legge del più forte15.
Di fronte all’altro Mazzolari vede una netta
alternativa che chiama in causa la coscienza morale. Essa è definita
diversamente, a seconda degli scritti. In La samaritana16
contrappone l’uomo-commerciante all’uomo-sacerdote. Il primo si
preoccupa della «quantità», mantiene le relazioni su un piano
meramente economico, è eternamente insoddisfatto delle cose che gli
appartengono: contribuisce così a creare l’ingiustizia, la
disuguaglianza e la guerra, «perché cancella da ogni creatura il
valore divino segnatovi dal Padre con la sua parola creatrice, che è
un soffio d’amore»17.
Il secondo invece è colui che dona se stesso in una logica
eucaristica, che fa di ogni relazione umana «quasi un
sacramento»: la sacerdotalità dell’offerta di sé alla maniera di
Cristo stabilisce «la giustizia, l’uguaglianza, la pace»18.
In Rivoluzione cristiana l’alternativa è
definita nei termini di egoismo e amore:
Non c’è molta libertà di
scelta. Il mondo o lo si costruisce sull’egoismo, o lo si
costruisce sull’amore: non un amore vago e sentimentale, che culli
e non stimoli, ma un amore che ispiri, regoli, sorregga e presieda
tutta la vita privata e pubblica, in un esperimento che va condotto
con profondo rispetto e grande carità verso l’uomo e verso un
mondo che tocca il parossismo dell’esperienza egoistica, ma insieme
con passione illuminata e ferma fiducia di ciò che l’uomo può
dare, se lo aiuteremo a sentire e a ordinare altruisticamente la
propria vita19.
Infine, in Impegno con Cristo parla di due
strade possibili: quella «pagana» e quella «cristiana».
L’alternativa però non è data dall’esplicito riferimento a
Cristo, quasi che questo fatto possa già tutelare in partenza il
credente. Per don Primo «si può essere pagani anche sotto insegne
cristiane, e irreligiosi anche se tutori di cose di religione»20.
Il criterio di distinzione tra «pagani» e cristiani è dato dal
fatto che i primi accettano «le disuguaglianze sociali come
fatalità», si servono delle ingiustizie per ritagliarsi un posto di
privilegio nel ruolo di oppressori, esaltano «il dovere per il
dovere, senza por mente se sia sorretto o no da un fondamento etico»,
«hanno le mani pulite perché non hanno mai fatto niente». I
cristiani, al contrario, accettano il rischio di «perdersi», non si
accontentano di agire da spettatori di fronte alle ingiustizie21.
In sintesi, l’alternativa proposta da Mazzolari
è tra l’egoismo e l’amore, tra l’emarginare socialmente
l’altro e il perdersi per lui, tra lo sfruttamento e il fare di se
stessi un dono. A questo livello si gioca la moralità della persona,
costretta a decidersi tra l’arbitrarietà e il farsi responsabile.
La coscienza morale attua se stessa quando diviene responsabilità
per l’altro. «La mia vita ha un valore perché di essa devo
rispondere a qualcuno. […] Il valore di un uomo cresce in
proporzione alla sua responsabilità»22.
L’accento sulla responsabilità rimanda
all’antropologia. La socialità è costitutiva della persona in
quanto essere in relazione con l’altro. Ma la dimensione sociale
del vivere umano non è solo un dato di fatto o esigenza obbligata
dalla necessità di una convivenza pacifica tra gli uomini. Essa dice
in verità anche lo scopo del vivere: la comunione, la fraternità.
Le stesse decisioni morali tendono al bene comune. Il vivere sulla
terra tra gli uomini ha il fine di costruire la giustizia nella
carità. Per questo motivo Mazzolari considera la pace un bene
particolarmente prezioso: è la condizione perché si realizzi la
comunione degli uomini. Le ripetute esperienze di guerra lo hanno
convinto sempre più che il rapporto tra uomo e uomo si esprime nel
vivere insieme fraternamente. La pace senza la giustizia è
illusione. L’esempio che egli usa in Della tolleranza è
quello di poter entrare nella casa dell’altro. Ciò avviene non per
impossessarsi di qualcosa o per dominarlo, ma per mettersi al
servizio della sua piena realizzazione. Da ospite e non da ladro23.
La ricchezza della vita umana sta nello «spendersi» senza riserve
per il bene comune24.
La denuncia che in più occasioni don Primo
rivolge al mondo cattolico è di pensare l’interiorità della
persona in termini individualistici, rischiando di dimenticare le
proprie responsabilità sociali. La cura della bontà morale è vera
se non va a scapito dell’aspetto comunitario del vivere umano25.
I rischi dello spiritualismo o dell’interiorismo rappresentano una
fuga nel privato e un venir meno di una dimensione fondamentale della
persona umana: l’esistere in relazione. La relazionalità esige la
responsabilità per definire la moralità personale.
3. L’esemplarità del samaritano
Un posto significativo sul tema della coscienza
morale attuata nella responsabilità occupa il commento alla parabola
evangelica del samaritano (Lc 10,21-37) che Mazzolari pubblica nel
1937. Si tratta di una meditazione della Parola, non di
considerazioni organiche e sistematiche. La ripercorriamo lasciandoci
condurre dall’itinerario dell’autore.
a) Il dottore della legge: si avvicina a Gesù per
metterlo alla prova sul «cosa fare» per ereditare la vita eterna
(v. 25). Don Primo vi legge il pericolo di accostarsi a Gesù con
un’intenzionalità non limpida. Il dottore della legge cerca
pretesti per giustificare risposte che si è già dato: la verità è
rifiutata in partenza sotto il peso di pregiudizi. E’ un problema
di occhi con cui guardare la realtà. «Per conoscere o riconoscere
il bene ci vuole una pupilla affettuosa»26.
La ricerca è atteggiamento di chi ha occhi d’affetto che si
lasciano benevolmente coinvolgere nella conoscenza della verità. Il
tema è stato approfondito dalla modernità, soprattutto ad opera di
Edith Stein nel suo volume Il problema dell’empatia27.
b) L’uomo che scende da Gerusalemme a Gerico:
finisce spogliato, percosso e abbandonato in fin di vita (v. 30).
«Non ha nome»28.
Ha il nome e il volto di ogni uomo. Rappresenta l’umanità che è
in cammino. Un viandante, come ogni uomo.
Un uomo che fa l’esperienza dell’altro come un
ladro. E’ così spogliato della sua dignità sociale, della sua
stessa vita, giacendo «mezzo morto». I briganti che incontra gli
sottraggono il diritto di vivere, gli sono nemici; uomini che hanno
regolato la loro vita non sulle necessità del prossimo ma sul loro
egoismo. E l’andarsene, abbandonando il malcapitato, dice una
evidente mancanza di responsabilità, una fuga. Per Mazzolari è un
non aver «coscienza dei propri atti e delle loro conseguenze»29.
c) Il sacerdote e il levita: percorrono la stessa
strada, vedono l’uomo ma passano oltre (vv. 31-32). Don Primo
ricorda che chi rappresenta la religione non è esente dal pericolo
di avere un cuore duro. La fede esige l’onestà morale della
persona. La pietà è espressione di un animo educato a riconoscere
il volto di Cristo nel povero. La fede che si chiude in difesa
sposando logiche di appartenenza a una classe, una casta, una
nazione, una categoria, una razza o una religione ha come scopo non
la carità ma «il proprio benestare»30.
La mancanza di compassione è un negare la presenza dell’altro.
Per l’autore è fondamentale lo sguardo
sull’uomo. Conta il fatto che sia ferito, abbandonato, in
situazione di bisogno e non l’appartenenza religiosa o la
condizione di peccato. La pietà si muove solo per il bisogno
dell’altro in quanto uomo31.
«Il rantolo di un morente ha il diritto di precedenza assoluta sugli
impegni della vita ordinaria»32.
E’ il bisogno del povero a costituire un appello alla coscienza
morale della persona. La preoccupazione per la propria reputazione
esige invece la ricerca di giustificazioni dietro cui nascondere la
chiusura del cuore. Mazzolari insiste sul fatto che non è questione
di specializzazione, perché la miseria dell’umanità è campo di
lavoro per tutti. Dipende esclusivamente dalla bontà morale della
persona.
La domanda sottintesa è la seguente: cosa fare
della presenza del malcapitato? Pilato si è lavato le mani davanti a
Cristo, l’innocente; Caino similmente si è dichiarato estraneo
alla sorte del fratello. I due esempi biblici servono all’autore
per dire che la responsabilità dell’uomo giunge «dove arriva
l’amore»33.
Gesù Cristo ha mostrato che la redenzione sta nel dare la vita, nel
consegnarsi. E’ il culmine della storia in cui amore per l’umanità
significa caricarsi responsabilmente della croce.
Il sacerdote e il levita guardano ma non vedono.
Il guardare «con pregiudizio è peggio di non vedere»34.
Parafrasando il salmista, l’uomo diventa come un idolo: ha occhi ma
non vede35.
Perciò, il modo con cui si guarda e la direzione dei propri occhi
dicono l’interiorità della persona. Il passar oltre è uscire
dall’umano, essere «fuori della realtà: fuori della vita»36.
d) Il samaritano: ha uno sguardo mosso da
compassione (v. 33). Anch’egli non ha un nome ed è un viandante.
Ogni uomo può ritrovarsi in lui. Si sente «legato alle sorti del
mondo, ove la provvidenza lo ha destinato a vivere»37.
E’ corresponsabile della salvezza altrui. La carità che lo anima
si concretizza nel fermarsi e farsi vicino al povero maltrattato e
abbandonato lungo la via. Il suo «chinarsi è un gesto materno»38
e richiama insieme l’incarnazione di Cristo, il chinarsi del Figlio
di Dio sull’umanità fino a farsi uomo. «Il samaritano fa come
Gesù, perciò Gesù è il samaritano, più che il samaritano, la
Carità»39.
Il samaritano ha pietà dell’uomo perché uomo,
non perché appartenente alla sua religione, razza, patria, casta o
partito. Gli interessa il suo volto in quanto uomo: qui si manifesta
la gratuità del gesto. Egli risponde positivamente all’appello che
il bisognoso gli rivolge dal margine della strada. La condizione di
emarginato dell’altro dà un senso pieno ai beni e alle ricchezze
del samaritano: il tempo, l’olio, il vino e il denaro «valgono
solo in rapporto a questa povertà che gli grida dal di dentro
più che dal di fuori»40.
Don Primo spende alcune pagine per sottolineare la
duplice possibilità di risposta all’appello del povero. L’uomo
può diventare o crocifissore, responsabile delle sofferenze
dell’innocente, o corredentore con Cristo, responsabile della vita
del fratello. L’uomo nuovo è colui che sa riconoscere e assumersi
la propria responsabilità. Come esempi di strumentalizzazione
dell’altro l’autore ricorda due situazioni: quella di chi chiude
una fabbrica licenziando gli operai pur di salvare i propri guadagni
e quella di chi paga una donna sfruttandola per i propri comodi per
scopi sessuali41.
In realtà «il crocifisso ha segnato sopra ogni volto d’uomo il
richiamo ineluttabile della nostra responsabilità. […] Il primo
anello della solidarietà è nella mia responsabilità»42.
Se la responsabilità qualifica l’agire del
samaritano nella situazione concreta in cui si trova, questo
atteggiamento ne esclude altri, da considerarsi irresponsabili: la
«neghittosità»43,
il «giudizio»44,
la ricerca dell’assoluta «perfezione»45.
Per Mazzolari l’indifferenza davanti alla
sofferenza è borghesia dello spirito. Il bene che il samaritano
opera vince il male degli altri. E il gesto di cedere il proprio
posto sul giumento indica una priorità compresa a partire dal
bisogno dell’altro. Nel prendersi cura egli «è consacrato
sacerdote, prende il posto del sacerdote che tira diritto»46.
L’autore vede pienamente realizzata, nella cura caritatevole, la
spiritualità sacerdotale a lui tanto cara.
e) L’oste: è chiamato a continuare l’opera
iniziata sulla strada (v. 35). Il samaritano ha mostrato che il bene
nasce da un cuore buono e questa sua intenzionalità è in grado di
rendere «buoni» anche i mezzi che utilizza. Si fa rappresentare da
due denari e chiede la collaborazione dell’oste della locanda. Il
bene si struttura in una condivisione di preoccupazione per le sorti
del sofferente. «La collaborazione all’apostolato avvicenda,
aiuta, continua armonicamente il lavoro e lo perfeziona. Il
samaritano ricorda all’oste ciò che deve fare e l’aiuta a
rispondere del fratello, davanti a Dio e davanti a sè»47.
Il lasciare che l’oste faccia la sua parte è segno di rispetto per
una diversa modalità di essere caritatevoli. Le mutevoli circostanze
suscitano nella storia sviluppi e sfumature diverse nel fare il
bene48.
Ciò che conta è che la bontà morale del samaritano induca alla
cura per il povero anche l’oste. In una forma diversa, ma la sua
bontà morale è direttamente chiamata in causa. E la sincerità del
suo agire è aiutata dal gesto del samaritano.
f) La conclusione della parabola è una ripresa
della questione iniziale su chi è il prossimo. Gesù capovolge la
prospettiva del dottore della legge. «Il prossimo è colui che vuol
essere mio prossimo, che si mette in istato di esserlo»49.
Il prossimo è dichiarato dall’animo di colui che gli sta di
fronte. Solo la carità annulla le distanze e «cambia l’uomo in
prossimo»50.
Il samaritano si chiude con il commento
all’imperativo di Cristo: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso» (v.
37). Mazzolari lo interpreta come un invito alla non rassegnazione.
Egli biasima la tentazione di chiudersi. Si tratta di vivere la nota
ecclesiale della cattolicità come apertura universale. I
particolarismi e i nazionalismi hanno causato guerre e anche crisi
economiche. Per l’autore occorre ribadire la vocazione temporale
del cristiano. Se la chiesa dà le direttive, è tuttavia compito dei
cristiani trovare le realizzazioni concrete. L’immagine simbolo di
una carità vissuta nel mondo è quella del lievito che fa fermentare
l’intera pasta51.
4. La cura del povero come giustizia
L’indagine sulla responsabilità della coscienza
morale cristiana in Mazzolari esige a questo punto una sosta sul
povero. Il tema è molto caro al parroco di Bozzolo, centrale tra le
sue preoccupazioni52.
Il modo di affrontarlo è caratteristico. Non gli
appartiene una lettura ideologica della povertà, né la ricerca di
soluzioni politiche immediate in grado di alleviare le condizioni
miserevoli di tante persone. Il suo approccio è propriamente etico:
la questione del povero è questione di giustizia sociale, di
rapporti vissuti strumentalmente e di indifferenza condivisa a
livello ecclesiale. La modalità con cui il tema è posto è
soprattutto quella della denuncia. A monte vi è il contatto con la
realtà quotidiana di classi sociali costrette dalla disperazione a
rifugiarsi nel comunismo, l’esperienza della povertà umana durante
le guerre, il bisogno di offrire una prospettiva di speranza ai ceti
meno abbienti. Lo scandalo su cui riflettere è l’allontanamento
dei poveri dalla chiesa. E’ segno di uno strappo che, per essere
ricucito, chiede un supplemento di testimonianza e di giustizia53.
Chi sono i poveri per don Primo? Conveniamo con
l’analisi di G. Vecchio che elenca diverse categorie al centro
dell’attenzione del giornale Adesso: i disoccupati, i
baraccati e i senza tetto, i contadini, i salariati agricoli, gli
emigranti, i carcerati, coloro che sono soggetti a forme di schiavitù
come le prostitute54.
Prima ancora che categoria sociale comunque il
povero è categoria teologica. L’insegnamento evangelico rimanda al
povero come al vero volto di Cristo sempre presente nella storia: il
povero per eccellenza è Cristo55.
Povero è inoltre ogni uomo in quanto tale, perché peccatore e
bisognoso di salvezza.
Vi è dunque in Mazzolari un concetto analogo di
povero. Indica un’indigenza che va dal piano
economico-materiale ad un piano antropologico-teologico. Sta di fatto
che il povero rappresenta il criterio oggettivo della responsabilità
della coscienza morale cristiana. A partire dalle esigenze di chi ha
più bisogno si può parlare di predilezione. La carità spinge il
cristiano a non fare di sé il centro dell’azione, ma a mettere al
primo posto l’oggettiva necessità del povero56.
Questa è la condizione per fuggire da ogni
tentazione di arbitrarietà. Il povero esige gratuità e
disinteresse. E la preoccupazione per le sorti degli ultimi
costruisce una società improntata sulla giustizia. I poveri non
possono ricambiare favori, non hanno voce da far valere, pagano le
conseguenze delle crisi economiche e delle guerre senza poter
reagire. Proprio per questo il dare risposte alle loro richieste non
appartiene alla logica di privilegio ma è dovere di giustizia.
Come si declina per Mazzolari questa
responsabilità verso i poveri? Quattro atteggiamenti sembrano essere
irrinunciabili per una coscienza morale illuminata dal vangelo.
- Farsi poveri
La «rivoluzione
cristiana» non si caratterizza per l’obiettivo di raggiungere i
poveri, ma di condividere la loro povertà. La coscienza cristiana
non può accontentarsi di fare qualcosa in favore dei poveri, ma ha
bisogno prima di tutto di entrare nel loro mondo. Il metodo è quello
dell’incarnazione. Mettersi su un gradino superiore rispetto al
povero significa sposare una logica assistenziale. E’ invece
necessaria la condivisione57.
Questa è la vera rivoluzione intonata sullo stile di Cristo che si è
fatto povero per solidarizzare con la povertà umana. Ciò significa
che la coscienza morale deve rinunciare ad avere delle risposte
predisposte a tavolino per saper leggere nella storia le urgenze e le
gerarchie a partire dagli ultimi. Le rivoluzioni che promettono di
cambiare la situazione materiale mantenendo ruoli di privilegio non
sono vere rivoluzioni58.
Dimenticano che è soprattutto necessaria una conversione interiore.
Il povero non fa solo delle richieste concrete ma per prima cosa è
presenza che mette in questione. Ogni atteggiamento di superiorità è
l’anticamera della strumentalizzazione e di una persistente
emarginazione.
- Tenere gli occhi aperti sui poveri
Il povero scomoda e inquieta le coscienze. Per
questo è facile la tentazione di volgere lo sguardo altrove. «Chi
ha poca carità vede pochi poveri: chi ha molta carità vede molti
poveri: chi non ha nessuna carità non vede nessuno»59.
E’ un problema di conoscenza e di senso della realtà. E’ in
gioco il discernimento dello sguardo. Per Mazzolari non spaventa il
fatto che ci siano dei poveri, ma piuttosto l’esistenza di persone
che non li «vogliono vedere», non si accorgono delle loro esigenze,
non prendono sul serio l’appello che deriva dalla loro condizione.
In un articolo al giornale mantovano La Cittadella il 24
febbraio 1946 don Primo critica cinque tipi di conoscenza del povero:
una conoscenza disumana che per godere delle proprie ricchezze ha
bisogno di vedere alla propria porta dei miserabili; una conoscenza
demolitrice che pensa male del povero come di colui che non ha voglia
di lavorare; una conoscenza di sfiducia che vorrebbe moltiplicate le
presenze dei poveri per poter garantire un agiato standard di vita;
una conoscenza di paura che non è disposta a perdere le proprie
sicurezze mettendo in questione le relazioni coi poveri; una
conoscenza romantica o faziosa per la quale ci si arroga il diritto
di firmare e parlare in nome del povero senza coinvolgerlo
direttamente60.
La novità dello sguardo sta nel «vedere l’uomo
nel povero»61,
non il compagno o l’appartenente alla stessa razza, nazione,
categoria, lingua. La responsabilità nasce da un cuore libero da
interessi particolari, animato dall’unico desiderio di servire e
promuovere l’umanità.
- Dare la parola ai poveri
E’ il titolo di una rubrica di Adesso,
curata personalmente da Mazzolari sin dal primo numero. Si tratta di
prendere sul serio i poveri senza servirsene a proprio interesse. Per
evitare ogni strumentalizzazione occorre che siano i poveri stessi a
parlare, a presentare le loro esigenze. L’ascolto da parte degli
altri è condizione di possibilità per un aiuto che non sia
funzionale al mettersi in mostra come benefattori.
«Conoscere è lasciar parlare»62.
Occorre che il povero racconti le proprie sofferenze e le condivida
per trovare vera accoglienza. E’ facile parlare dei poveri in terza
persona; è comodo parlare ai poveri da una condizione di benestanti;
è utile parlare in nome dei poveri improvvisandosi loro avvocati; ma
«dare la parola ai poveri è un’altra cosa»63.
- Dare risposte di carità ai poveri
E’ la responsabilità di realizzare opere di
giustizia. Mazzolari la sintetizza nell’espressione: «Il di più è
dei poveri». Il possedere più del necessario significa tradire il
progetto di Dio sull’umanità. «Di fronte al diritto di vivere,
il diritto di proprietà scade fino a non esistere»64.
E’ necessario dare dei limiti al possedere. Mentre però il
marxismo vede nel possesso un’appropriazione del lavoro di altri,
la concezione cristiana ritiene che nel di più ci sia non solo il
lavoro di altri, ma anche «il capitale di Dio (terra, acqua,
aria, ecc.)» e «il lavoro di Dio» (che è ovunque
all’opera). Ne deriva che il sottrarre il necessario ai fratelli è
rubare a Dio che mette a disposizione i beni per tutti. Quanto al
problema su chi deve stabilire il di più, la risposta di don
Primo è sicura: «Non il capriccio o l’insaziabilità di chi ha,
poiché né l’uno né l’altro momento riesce a far posto a chi
non ha. […] Non la concupiscenza di chi non ha, che sarebbe
anch’essa una falsa misura, nonostante l’arsura che la fa
comprensibilissima. Stabilisce il di più la necessità di chi non
ha, misurata sulla carità del cuore di Dio»65.
La risposta all’ingiustizia sta in una carità
che non è semplicemente fatta di elemosina. Essa è un piegarsi
verso i deboli senza cedere ai potenti, è un fare di se stessi
un’offerta66.
E’ la persona coinvolta in tutta la sua interiorità. «Nel mondo
dell’amore non valgono i criteri quantitativi. Il gesto della
carità non si valuta dal cambiamento immediato ch’esso riesce a
determinare nella realtà. […] Ma il suo valore è tutt’intero
nella stessa impotenza, che lo riduce apparentemente a nulla più di
“piccolo gesto”»67.
La carità ha il potere di compromettere la persona nella storia
concreta. Svolge un compito critico nei confronti delle
contraddizioni del nostro mondo. Essa «è sempre una pienezza,
qualche cosa di avventuroso, di militante, di aggressivo»68.
Vale a dire, la carità è schierarsi, prendere posizione, stare
dalla parte del povero. La coscienza morale è direttamente
implicata.
5. Il Concilio Vaticano II
Il Concilio Vaticano
II ha avuto diverse spinte interne per riuscire ad affrontare il tema
di una Chiesa. Basterebbe leggere il Diario di Helder Camara, Roma,
due del mattino. Lettere dal Concilio Vaticano II, per capire
quanto fosse presente la preoccupazione tra diversi padri conciliari
e come non ci fosse unanimità su questa visione. Il gruppo del
Collegio belga, ispirato dal teologo Paul Gauthier, ha dato impulso
alla riflessione. Il card. Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna,
il 6 dicembre 1962 in un memorabile discorso dà profondità
teologica al tema della Chiesa dei poveri. Il principio unificante e
vivificante del Concilio poteva essere solo la convinta dichiarazione
che è giunta l’ora di poveri, al mistero della Chiesa madre dei
poveri. Non si può intendere la povertà della Chiesa se non la si
percepisce come lunga maturazione della coscienza ecclesiale. In
questo senso appare col suo valore l’insegnamento di Mazzolari. La
Chiesa è invitata a lasciarsi guidare dai segni dei tempi.
Il discorso di Lercaro
al Concilio vuole fondarsi sul mistero stesso di Cristo. Egli
chiedeva che nel lavoro conciliare il primo posto fosse da dare alla
formulazione della povertà di Cristo. Il povero è scelto come
sacramento di Cristo per salvare e operare nella storia. Si chiede
inoltre il riconoscimento della dignità dei poveri, come membra
privilegiate della Chiesa in cui Cristo stesso si riconosce. Egli è
presente nei poveri, come lo è nell’eucaristia e nella gerarchia
che ammaestra la Chiesa.
La prospettiva di
Lercaro non è stata recepita del tutto, almeno nella sua ampiezza.
Solo il terzo capoverso di LG 8 dà spazio a questa visione. La
constatazione è che la Chiesa dei poveri non è stato centrale al
concilio, anche se presente in alcuni aspetti. I vescovi sono più
presi dalle questioni legate alla costituzione gerarchica della
Chiesa stessa.
Il gesto di Paolo VI
(12 novembre 1964) di deporre la sua tiara sull’altare, segno
tradizionale del potere papale, come dono ai poveri suscita clamore e
commozione. Ma rimane per molti versi un gesto isolato.
Il 16 novembre 1965,
una quarantina di padri conciliari firmano al termine dell’eucaristia
nelle Catacombe di Domitilla un patto, il cosiddetto «Patto delle
Catacombe». Vi aderiscono in pochi giorni più di 500 vescovi. Si
impegnano a portare avanti una vita di povertà, una Chiesa del
servizio e povera, come aveva suggerito papa Giovanni XXIII.
Intendono rinunciare ai simboli di potere e privilegio e vogliono
collocare i poveri al centro della loro cura pastorale. Il testo
diviene un riferimento per la teologia della liberazione
latinoamericana.
Recita:
«1.
Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione
per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di
locomozione e tutto il resto che da qui discende. Cfr. Mt 5,3; 6,33s;
8,20.
2.
Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza,
specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle
insegne di materia preziosa (questi segni devono essere
effettivamente evangelici). Cf. Mc 6,9; Mt 10,9s; At 3,6. Né oro né
argento. Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né
conto in banca, ecc.; e, se fosse necessario averne il possesso,
metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative.
Cf. Mt 6,19-21; Lc 12,33s.
3.
Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione
finanziaria e materiale nella nostra diocesi ad una commissione di
laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di
essere, noi, meno amministratori e più pastori e apostoli. Cf. Mt
10,8; At. 6,1-7.
4.
Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e
titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza,
Monsignore…). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di
Padre. Cf. Mt 20,25-28; 23,6-11; Jo 13,12-15.
5.
Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo
quello che può sembrare un conferimento di privilegi, priorità, o
anche di una qualsiasi preferenza, ai ricchi e ai potenti (es.
banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi). Cf. Lc
13,12-14; 1Cor 9,14-19.
6.
Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità di
chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per
qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i
loro doni come una partecipazione normale al culto, all’apostolato
e all’azione sociale. Cf. Mt 6,2-4; Lc 15,9-13; 2Cor 12,4.
7.
Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione,
cuore, mezzi, ecc., al servizio apostolico e pastorale delle persone
e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati,
senza che questo pregiudichi le altre persone e gruppi della diocesi.
Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il
Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la
vita operaia e il lavoro. Cf. Lc 4,18s; Mc 6,4; Mt 11,4s; At 18,3s;
20,33-35; 1Cor 4,12 e 9,1-27.
8.
Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro
mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza”
in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano
conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli
organismi pubblici competenti. Cf. Mt 25,31-46; Lc 13,12-14 e 33s.
9.
Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri
servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni
sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo
armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui,
all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli
dell’uomo e dei figli di Dio. Cf. At. 2,44s; 4,32-35; 5,4; 2Cor 8 e
9 interi; 1Tim 5, 16.
10.
Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelica
realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in
stato di miseria fisica, culturale e morale – due terzi
dell’umanità – ci impegniamo:
- a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere;
- a richiedere insieme agli organismi internazionali, ma testimoniando il Vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino più nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria.
- Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; così:
- ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro;
- formeremo collaboratori che siano più animatori secondo lo spirito che capi secondo il mondo;
- cercheremo di essere il più umanamente presenti, accoglienti…;
- saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione. Cf. Mc 8,34s; At 6,1-7; 1Tim 3,8-10.
Tornati alle nostre rispettive
diocesi, faremo conoscere ai fedeli delle nostre diocesi la nostra
risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro
aiuto e le loro preghiere».
Sognare una Chiesa
povera è questione di stile di cristianesimo. In passato i vescovi
ai concili arrivavano con i mezzi messi a disposizione
dall’imperatore o dal potere di turno. Ancor oggi nel mondo vi sono
cardinali che vivono sotto scorta pagata dallo stato a causa delle
loro posizioni intransigenti capaci di far indignare i poveri!
La pagina conciliare
tratta il tema nel famoso punto c) di LG 8.
Il testo afferma:
«Come Cristo ha compiuto la
redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la
Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli
uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo « che era di condizione
divina... spogliò se stesso, prendendo la condizione di schiavo »
(Fil 2,6-7) e per noi « da ricco che era si fece povero » (2 Cor
8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione
abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria
terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l'umiltà e
l'abnegazione. Come Cristo infatti è stato inviato dal Padre « ad
annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il
cuore contrito » (Lc 4,18), « a cercare e salvare ciò che era
perduto» (Lc 19,10), così pure la Chiesa circonda d'affettuosa cura
quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri
e nei sofferenti l'immagine del suo fondatore, povero e sofferente,
si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire
il Cristo. Ma mentre Cristo, « santo, innocente, immacolato » (Eb
7,26), non conobbe il peccato (cfr. 2 Cor 5,21) e venne solo allo
scopo di espiare i peccati del popolo (cfr. Eb 2,17), la Chiesa, che
comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre
bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della
penitenza e del rinnovamento».
Il Concilio per la
prima volta ha dato diritto di cittadinanza dogmatica al tema:
richiamarsi alla via Jesu è un diritto riconosciuto nella
Chiesa. Questo è il senso della portata dottrinale, al di là della
marginalità o meno dell’argomento nell’insieme dei testi
conciliari. Se affermo che oggi la Chiesa per compiere la sua
missione è obbligata a percorrere la stessa via che seguì Gesù,
nessuno mi può dichiarare eretico. Novità conciliare è la forma
ecclesiae che non può rinunciare alla forma Christi.
La forma Christi
è irrinunciabile nella Chiesa. Il testo ha la forma concessiva:
«sebbene la Chiesa ha bisogno di mezzi umani». E’ la spia di un
problema storico e teologico. Il problema è che la Chiesa non è la
semplice continuazione di Gesù. La Chiesa è anche un novità
rispetto alla vita di Gesù. Loisy diceva: «Cristo ha predicato il
Regno, ma è sorta la Chiesa». Nella storia dei primi secoli non ci
sono solo singoli vescovi (come con Ignazio d’Antiochia), ma esiste
una gestione collegiale della chiesa (cfr a Roma con Clemente
Romano). Il battesimo dei bambini è per esempio una novità
ecclesiale rispetto all’ambiente della primitiva comunità
cristiana. Ciò significa che la Chiesa interpreta e trasforma la
forma di Cristo proponendo una propria forma.
Nel caso della povertà
della Chiesa: la sua forma di religione di massa e il suo essere
forma civile come si può configurare? La dialettica è aperta, ma la
sua soluzione è scelta spirituale della Chiesa.
Povertà e azione
della Chiesa nel mondo sono la vocazione della Chiesa stessa. Essa
per comunicare agli uomini la salvezza di Cristo fa suoi gli
strumenti di Cristo. Nel recente Sinodo sull’evangelizzazione
(ottobre 2012) nessun vescovo ne ha parlato e questo conferma la
difficoltà a recepire la questione. La Chiesa nella sua missione
assume gli stessi atteggiamenti di Cristo. I poveri sono i
destinatari di un abbraccio amoroso, perché in essi vi si riconosce
l’immagine del suo Signore.
Il testo di LG risulta
il testo più censurato del magistero postconciliare. E’ assente
totalmente in Paolo VI, in Populorum Progressio, è evocato
timidamente in Evangelii Nuntiandi 15 che parla di un generico
dovere di continuare la missione evangelizzatrice di Cristo, senza
riferimento allo stile. Anche Giovanni Paolo II lo ha ignorato. Ne ha
parlato in Pastores Dabo Vobis, ma citando Optatam Totius 9
per esortare i singoli presbiteri alla povertà, senza far
riferimento a LG 8: non è neppure sfiorato il tema della povertà
della Chiesa in quanto tale. Ci si ferma alle virtù personali del
presbitero. Anche Benedetto XVI non ha avuto una recezione
significativa di LG 8.
Alla CEI in
Evangelizzazione e testimonianza della carità, documento
pastorale per gli anni ’90, l’argomento viene evitato e il peso
del discorso è trasferito sull’esigenza di annunciare ai poveri e
di servirli. Non si parla per niente di una Chiesa povera.
Unica eccezione sono
le Chiese dell’America Latina. Esplicitamente si pensa ai poveri
come all’asse della dottrina ecclesiale. Nel messaggio di Paolo VI
a Medellin (1968), il Papa elogia le diocesi che mettono a
disposizione i loro beni per i poveri. Parla di vocazione alla
povertà di Cristo. La teologia della liberazione ha avuto il merito
di guardare la storia a partire dagli ultimi, rappresentando l’unico
tentativo credibile di proposta del messaggio conciliare presente in
LG 8. Non andava forse appoggiata questa coerenza conciliare che
altrove si è accantonato?
E noi oggi? Il card.
C.M. Martini scriveva in Conversazioni notturne a Gerusalemme:
«Un tempo avevo sogni sulla
Chiesa. Una Chiesa che procede per la sua strada in povertà e
umiltà, una Chiesa che non dipende dai poteri di questo mondo.
Sognavo che la diffidenza fosse estirpata. Una chiesa che dà spazio
alle persone capaci di pensare in modo più aperto. Una Chiesa che
infonde coraggio, soprattutto a coloro che si sentono piccoli o
peccatori. Sognavo una Chiesa giovane. Oggi non ho più di questi
sogni. Dopo i settantacinque anni ho deciso di pregare per la Chiesa.
Guardo al futuro»69.
Penso che si tratti
per noi di raccogliere un’eredità che è ancora sospesa. Senza
abbandonarci alla sfiducia, ma anche senza nasconderci le fatiche che
questa conversione ecclesiale richiede. Ha ragione Mazzolari: «i
poveri si abbracciano, non si contano»70.
Per far questo,
occorre imparare ad abitare le periferie, come ci sta insegnando papa
Francesco. Già don Primo lo affermava: «I destini del mondo si
maturano in periferia. Nelle piazze e nei parlamenti si fanno gli
affari e la politica; ma l’umanità si degrada o si eleva in
periferia»71.
Il motivo è ancora cristologico: «Chi non capisce il povero, non
capisce Cristo: chi lascia fuori il povero, lascia fuori Cristo, che
ancora una volta va a morire fuori delle mura»72.
E’ curioso notare
come il parroco di Bozzolo abbia visto lontano pensando ad una Chiesa
povera. Riflette in due passaggi dello scritto La parrocchia:
«La Chiesa è una
compagine di anime che fanno comunione: e, nella comunione, la
disciplina esterna e i mezzi esterni non hanno un valore assoluto né
preminente. Servono, possono servire, ma se superano certi limiti, se
soprattutto vengono sopravvalutati e adoperati in concorrenza,
finiscono per indisporre quei di casa e quei di fuori. Nessuno viene
raggiunto o impressionato in campo religioso da manifestazioni di
potenza o di magnificenza, di fasto o di ricchezza»73.
«“Non prendete né
bisaccia né mantello, né oro, né argento, né bastone, né
spada…”. Questo parlare del Signore, per noi, non è consiglio,
ma comando. Quel giorno che non avremo più né entrate né bilanci,
quando saremo un po’ come gli uccelli dell’aria e i gigli del
campo, lo scandalo porterà frutto. Questo nostro povero mondo
materialista e calcolatore non può essere salvato sul piano del
calcolo e della quantità. Dio ha sempre scelto le cose che non sono
per confondere quelle che credono di essere; gli ignoranti per
confondere i sapienti; i folli per confondere i prudenti; i poveri
per confondere i ricchi»74.
Abbiamo impiegato
cinquant’anni di vita ecclesiale per dimenticare questa profonda
verità teologica: una Chiesa che anela al potere non evangelizza.
Non è forse l’ora di invertire la tendenza? Non è questo un
evidente «segno dei tempi»?
1
P. Mazzolari, La
parola ai poveri, La Locusta, Vicenza 19633, 58.
2
Ibidem, 70.
3
Ibidem, 71.
4
Ibidem, 75.
5
Ibidem, 87.
6
Ibidem, 88.
7
Cfr P. Mazzolari,
Quasi una vita. Lettere a Guido Astori, EDB, Bologna 1979,
54-57; Id., Diario
II, 220-234.
8
Si vedano ad esempio tutte le incomprensioni con l’autorità
ecclesiastica scoppiate in seguito alla pubblicazione di La più
bella avventura nel 1934. Cfr F. Molinari,
ed., La più bella avventura e le sue «disavventure».
9
Cfr P. Mazzolari,
«Ritorniamo italiani», in Adesso 1 (1949) 5, 1.
10
Cfr tra gli altri, P. Mazzolari,
Il coraggio del «confronto» e del «dialogo».
11
Cfr P. Mazzolari, Cara
terra, 63.
12
Cfr P. Mazzolari, La
più bella avventura, 67.
13
P. Mazzolari, Tempo
di credere, 159-160.
14
Ibidem, 160.
15
Cfr P. Mazzolari, Tu
non uccidere, 24-32.
16
Il saggio è del ’43. Il contesto in cui si colloca la presente
riflessione è quello dell’annuncio di Cristo alla samaritana del
dono in grado di saziare definitivamente la sua sete (Gv 4,10).
17
P. Mazzolari, Perché
non mi confesso?, 63.
18
Ibidem, 63.
19
P. Mazzolari,
Rivoluzione cristiana, 41.
20
P. Mazzolari, Impegno
con Cristo, 24.
21
Cfr ibidem, 25. E’ discutibile la distinzione tra pagani e
cristiani non in base alla fede ma alla responsabilità morale di
adoperarsi a superare le ingiustizie. Appartiene comunque allo stile
provocatorio di don Primo la volontà di coniugare religiosità e
impegno sociale. La dissociazione tra i due elementi è segno di una
fede insufficiente e di una deriva spiritualista.
23
Cfr P. Mazzolari,
Della fede, 151-152.
24
Cfr P. Mazzolari,
Dietro la croce e Il segno dei chiodi, Bologna 19832,
68-70; Id.,
Rivoluzione cristiana, 25-32.
25
Cfr P. Mazzolari,
Lettere al mio parroco, 43-44; Id.,
Impegno con Cristo, 89-92; Id.,
La più bella avventura, 182-183; Id.,
Perché non mi confesso?, 97-100.
26
Ibidem, 11-12.
27
E. Stein, Il
problema dell’empatia, Studium, Roma 2012.
28
Ibidem, 27.
29
Ibidem, 45.
30
Cfr P. Mazzolari, Il
samaritano, 58-59.
31
Cfr ibidem, 64-65.
32
Ibidem, 66.
33
Cfr ibidem, 68.
35
Cfr Sal 115 (113B), 5.
37
Ibidem, 93.
38
Ibidem, 96.
39
Ibidem, 96.
40
Ibidem, 103.
41
Cfr ibidem, 104-107.
42
Ibidem, 104.
43
Il credente non può rifugiarsi nella preghiera come giustificazione
del non fare. Non è vera preghiera quella che spinge ad essere
inerti, inoperosi. Cfr ibidem, 110.
44
E’ «un’altra maniera d’evadere o di chiudere il cuore»
(ibidem, 111). Oggi parleremmo opportunamente di pre-giudizi
da abbandonare se si vuole vedere le necessità del povero.
45
Spesso è nemica del concretamente possibile. Il samaritano opera
coi pochi mezzi che ha a disposizione: «non attende una condizione
ideale» (ibidem, 114). Il criterio che lo spinge a
intervenire è quello dell’urgenza. Vede nella situazione un
appello incondizionato. Chi pretende di avere la perfezione finisce
per non agire mai.
46
Ibidem, 119.
47
Ibidem, 127.
48
Mazzolari a questo punto introduce una digressione sul pluralismo e
sulla storicità nell’insegnamento sociale della chiesa. Da
principi dottrinali comuni derivano possibili opzioni diverse a
causa delle circostanze che cambiano: una riflessione sul peso delle
circostanze in grado di garantire soluzioni diverse: cfr ibidem,
130.
49
Ibidem, 139.
50
Ibidem, 140.
51
Cfr ibidem, 150-155.
52
Non a caso nel Testamento spirituale don Primo si
rammarica per i poveri che avrebbe potuto aiutare maggiormente e
dichiara «la predilezione dei poveri e dei lontani». Cfr P.
Mazzolari, Lettere
ai Familiari, 161-165.
53
Cfr P. Mazzolari, I
preti sanno morire, 77; L. Bedeschi,
ed., Obbedientissimo in Cristo, 212-214; Id.,
«La Chiesa e l’Europa», in A.2 (1950) 16-17, 1-2.
54
Cfr G. Vecchio,
«“Adesso”, i problemi della società italiana e la situazione
internazionale degli anni Cinquanta», in G.
Campanini – M.
Truffelli, ed., Mazzolari e «Adesso», 113-124.
56
Nell’opuscolo La parrocchia don Primo parla di vuoti umani
(povertà) colmati dall’amore: cfr P. Mazzolari,
«La parrocchia», 45.
57
Cfr ibidem, 50-53 e P. Mazzolari,
«Aperture col passo e col cuore del povero», in A.5 (1953)
15, 4-5. E’ questo il motivo che ha spinto don Primo a promuovere
e sottoscrivere nel 1958 la famosa Lettera ai Vescovi della Val
Padana (cfr A.10 [1958] 5, 1-2).
58
Cfr P. Mazzolari,
Rivoluzione cristiana, 131-154.
59
P. Mazzolari, La
Via crucis del povero, 18.
60
Cfr P. Mazzolari, Ho
paura delle mie parole, 33-40.
61
Ibidem, 38. Si veda anche P. Mazzolari,
Il compagno Cristo, 194.
62
P. Mazzolari, «Le
apparizioni del povero», in A.1 (1949) 3, 3. Per quanto
riguarda il tema della parola al povero si vedano M. Maraviglia,
Chiesa e storia in «Adesso», 144-153; U. Vivarelli,
«Dare la parola ai poveri secondo la lezione di don Primo», in A.
Chiodi, Mazzolari
nella storia della Chiesa e della società italiana del Novecento,
162-177; G. Sigismondi,
La Chiesa: «un focolare che non conosce assenze», 175-194;
G. Rumi, «La
“scoperta” del povero. Appunti da una rilettura di “Adesso”»,
Imp. 1 (2004), 55-60.
63
Cfr P. Mazzolari, «La
parola ai poveri», in A.1 (1949) 1, 3.
64
P. Mazzolari, «Il di
più è dei poveri», in A.4 (1952) 15, 5.
65
Ibidem, 5.
68
Ibidem, 165.
69
C.M. Martini, G.
Sporschill,
Conversazioni notturne a Gerusalemme, Mondadori, Milano 2008,
61-62.
70
P. Mazzolari, La
parola ai poveri, 29.
71
P. Mazzolari, La
parola ai poveri, 42.
72
P. Mazzolari, La
parola ai poveri, 44.
73
P. Mazzolari, Lettera
sulla parrocchia - La parrocchia, 86.
74
P. Mazzolari, Lettera
sulla parrocchia - La parrocchia, 114.