Don Primo Mazzolari e la strada conciliare...




Marola (RE), 26 luglio 2013

La Chiesa e i poveri

Don Primo Mazzolari e la strada conciliare…
di Bruno Bignami




1. Mazzolari nel solco della tradizione cristiana

Nel 1960 l’editrice La Locusta di Vicenza pubblicava un piccolo opuscolo di don Primo Mazzolari intitolato La parola ai poveri. Si trattava di alcuni scritti del parroco di Bozzolo da poco scomparso e di una raccolta di frasi dei Padri della Chiesa curata da Mazzolari stesso. Il testo rivela la particolare premura con cui vescovi e santi dei primi secoli hanno annunciato il vangelo dei poveri. Di S. Basilio, ad esempio, si riportano gli interrogativi di un’omelia: «Che cosa risponderai a Dio, tu che vesti i muri e non vesti il tuo simile? Tu che orni il tuo cavallo e non hai uno sguardo per il tuo fratello in miseria? Tu che lasci marcire il tuo grano e non nutri chi ha fame?»1.
La frase presa da Il ricco insensato è significativa: «Il pane che tieni per te è dell’affamato». Oppure è citata la riflessione sapienziale di S. Ambrogio secondo cui la terra ci rende tutti uguali: «Il mondo è stato creato per tutti: per i ricchi e per i poveri. La natura non fa distinzioni perché ci genera tutti poveri. Noi non nasciamo col vestito, né con l’argento e l’oro. Nudi nasciamo, bisognosi di cibo e di vestito; e nudi ci riceverà la terra. (…) Scavate la terra e fatemi vedere il ricco»2. Nella stessa opera il vescovo di Milano se la prende con i ricchi: «Il povero ti domanda un pezzo di pane e il tuo cavallo è trattato meglio di lui. Ti dilettano gli stucchi preziosi, mentre gli altri non hanno da mangiare. Quale giudizio, o ricco, attiri sul tuo capo!»3. C’è spazio anche per stralci di omelie S. Giovanni Crisostomo, che associa cena eucaristica e opera di misericordia: «Chi disse: “questo è il mio corpo”, è lo stesso che disse: “voi m’avete visto affamato e non m’avete dato da mangiare” e “ogni volta che avete rifiutato di farlo a uno di questi miseri è a me che l’avete rifiutato”. Dio non ha bisogno di calici d’oro, ma di cuori d’oro»4. Si riportano citazioni dalle omelie anche del vescovo e dottore S. Agostino: «Il superfluo dei ricchi è il necessario dei poveri. Possedere il superfluo è quindi possedere il bene degli altri»5. «E’ un dovere, nel giorno del digiuno, fare elemosina. (…) Che cosa vi è di più ingiusto che far servire a una sporca avarizia le restrizioni del digiuno?»6.

2. L’alternativa tra amore ed egoismo


Una domanda è sottesa frequentemente nell’esperienza del parroco di Bozzolo: quale sguardo riservare all’altro? E l’altro assume di volta in volta un volto differente: a Cosel nel 1920 sono i militari di eserciti stranieri che si contendono il territorio7, negli anni ’30 sono i fratelli protestanti8, nell’immediato dopoguerra sono gli italiani che hanno sostenuto il fascismo e per i quali don Primo chiede una pacificazione nazionale9, in diverse occasioni sono i comunisti contro i quali giunge anche una scomunica da parte della chiesa10, quasi sempre sono i poveri nei panni del parrocchiano, del soldato semplice, dell’ebreo perseguitato, dell’affamato, dell’alluvionato, del bisognoso, del disoccupato.
Insomma, l’altro si presenta agli occhi di Mazzolari con esigenze che chiedono una risposta tempestiva. E’ interessante raccogliere tra i suoi scritti alcune considerazioni al riguardo.
Innanzi tutto il credente è chiamato a condividere le situazioni di bisogno. Che si tratti di guerra o di povertà o di altro, la carità chiede un ascolto che sa mettersi nelle vesti del fratello. Non si guarda l’altro dal di fuori, con l’aria di chi vuol giudicare. L’esperienza ha sempre molto da insegnare. Partire dal bisogno degli altri è condizione per non chiudersi in difesa intorno ai propri beni e alle proprie certezze11. L’indifferenza è uccisione del fratello, come già per Caino12. Proprio la condivisione delle situazioni di bisogno e la gratuità del proprio interessarsi restituiscono anche il diritto di parola:
Davanti al presepio, come nella taverna di Emmaus, è qualcuno solo chi ha niente. Gli può soltanto parlare uno che ha niente. Se uno fa gli affari su quelli che muoiono in trincea o in mare, non ha diritto di parlare. Se uno non ha cuore per chi ha perduto la casa, la patria, la chiesa… non ha diritto di parlare. Se uno non ha fame e sete di giustizia per tutti i depredati, per tutti gli oppressi, non ha diritto di parlare. Io non ho diritto di parlare. Il mio benessere mi oltraggia: il mio egoismo mi schiaffeggia: la mia comodità mi diminuisce fino a togliermi ogni diritto di parola13.
La più grande ricchezza data da Dio al cristiano è la comunione «con l’umanità lacerata e crocifissa». Questo atteggiamento dà voce alla preghiera autentica e fa aprire gli occhi sulla realtà oggettiva, ben diversa da quella che uno potrebbe sognarsi14.
La tentazione che si presenta, subdola o dichiarata, è quella di considerare l’altro come un nemico. E’ questa l’immagine che nella storia ha giustificato il ricorso alle armi per qualsiasi motivo, anche per interessi privati o di parte. La logica dell’altro come nemico è strettamente imparentata alla legge del più forte15.
Di fronte all’altro Mazzolari vede una netta alternativa che chiama in causa la coscienza morale. Essa è definita diversamente, a seconda degli scritti. In La samaritana16 contrappone l’uomo-commerciante all’uomo-sacerdote. Il primo si preoccupa della «quantità», mantiene le relazioni su un piano meramente economico, è eternamente insoddisfatto delle cose che gli appartengono: contribuisce così a creare l’ingiustizia, la disuguaglianza e la guerra, «perché cancella da ogni creatura il valore divino segnatovi dal Padre con la sua parola creatrice, che è un soffio d’amore»17. Il secondo invece è colui che dona se stesso in una logica eucaristica, che fa di ogni relazione umana «quasi un sacramento»: la sacerdotalità dell’offerta di sé alla maniera di Cristo stabilisce «la giustizia, l’uguaglianza, la pace»18.
In Rivoluzione cristiana l’alternativa è definita nei termini di egoismo e amore:
Non c’è molta libertà di scelta. Il mondo o lo si costruisce sull’egoismo, o lo si costruisce sull’amore: non un amore vago e sentimentale, che culli e non stimoli, ma un amore che ispiri, regoli, sorregga e presieda tutta la vita privata e pubblica, in un esperimento che va condotto con profondo rispetto e grande carità verso l’uomo e verso un mondo che tocca il parossismo dell’esperienza egoistica, ma insieme con passione illuminata e ferma fiducia di ciò che l’uomo può dare, se lo aiuteremo a sentire e a ordinare altruisticamente la propria vita19.
Infine, in Impegno con Cristo parla di due strade possibili: quella «pagana» e quella «cristiana». L’alternativa però non è data dall’esplicito riferimento a Cristo, quasi che questo fatto possa già tutelare in partenza il credente. Per don Primo «si può essere pagani anche sotto insegne cristiane, e irreligiosi anche se tutori di cose di religione»20. Il criterio di distinzione tra «pagani» e cristiani è dato dal fatto che i primi accettano «le disuguaglianze sociali come fatalità», si servono delle ingiustizie per ritagliarsi un posto di privilegio nel ruolo di oppressori, esaltano «il dovere per il dovere, senza por mente se sia sorretto o no da un fondamento etico», «hanno le mani pulite perché non hanno mai fatto niente». I cristiani, al contrario, accettano il rischio di «perdersi», non si accontentano di agire da spettatori di fronte alle ingiustizie21.
In sintesi, l’alternativa proposta da Mazzolari è tra l’egoismo e l’amore, tra l’emarginare socialmente l’altro e il perdersi per lui, tra lo sfruttamento e il fare di se stessi un dono. A questo livello si gioca la moralità della persona, costretta a decidersi tra l’arbitrarietà e il farsi responsabile. La coscienza morale attua se stessa quando diviene responsabilità per l’altro. «La mia vita ha un valore perché di essa devo rispondere a qualcuno. […] Il valore di un uomo cresce in proporzione alla sua responsabilità»22.
L’accento sulla responsabilità rimanda all’antropologia. La socialità è costitutiva della persona in quanto essere in relazione con l’altro. Ma la dimensione sociale del vivere umano non è solo un dato di fatto o esigenza obbligata dalla necessità di una convivenza pacifica tra gli uomini. Essa dice in verità anche lo scopo del vivere: la comunione, la fraternità. Le stesse decisioni morali tendono al bene comune. Il vivere sulla terra tra gli uomini ha il fine di costruire la giustizia nella carità. Per questo motivo Mazzolari considera la pace un bene particolarmente prezioso: è la condizione perché si realizzi la comunione degli uomini. Le ripetute esperienze di guerra lo hanno convinto sempre più che il rapporto tra uomo e uomo si esprime nel vivere insieme fraternamente. La pace senza la giustizia è illusione. L’esempio che egli usa in Della tolleranza è quello di poter entrare nella casa dell’altro. Ciò avviene non per impossessarsi di qualcosa o per dominarlo, ma per mettersi al servizio della sua piena realizzazione. Da ospite e non da ladro23. La ricchezza della vita umana sta nello «spendersi» senza riserve per il bene comune24.
La denuncia che in più occasioni don Primo rivolge al mondo cattolico è di pensare l’interiorità della persona in termini individualistici, rischiando di dimenticare le proprie responsabilità sociali. La cura della bontà morale è vera se non va a scapito dell’aspetto comunitario del vivere umano25. I rischi dello spiritualismo o dell’interiorismo rappresentano una fuga nel privato e un venir meno di una dimensione fondamentale della persona umana: l’esistere in relazione. La relazionalità esige la responsabilità per definire la moralità personale.

3. L’esemplarità del samaritano


Un posto significativo sul tema della coscienza morale attuata nella responsabilità occupa il commento alla parabola evangelica del samaritano (Lc 10,21-37) che Mazzolari pubblica nel 1937. Si tratta di una meditazione della Parola, non di considerazioni organiche e sistematiche. La ripercorriamo lasciandoci condurre dall’itinerario dell’autore.
a) Il dottore della legge: si avvicina a Gesù per metterlo alla prova sul «cosa fare» per ereditare la vita eterna (v. 25). Don Primo vi legge il pericolo di accostarsi a Gesù con un’intenzionalità non limpida. Il dottore della legge cerca pretesti per giustificare risposte che si è già dato: la verità è rifiutata in partenza sotto il peso di pregiudizi. E’ un problema di occhi con cui guardare la realtà. «Per conoscere o riconoscere il bene ci vuole una pupilla affettuosa»26. La ricerca è atteggiamento di chi ha occhi d’affetto che si lasciano benevolmente coinvolgere nella conoscenza della verità. Il tema è stato approfondito dalla modernità, soprattutto ad opera di Edith Stein nel suo volume Il problema dell’empatia27.
b) L’uomo che scende da Gerusalemme a Gerico: finisce spogliato, percosso e abbandonato in fin di vita (v. 30). «Non ha nome»28. Ha il nome e il volto di ogni uomo. Rappresenta l’umanità che è in cammino. Un viandante, come ogni uomo.
Un uomo che fa l’esperienza dell’altro come un ladro. E’ così spogliato della sua dignità sociale, della sua stessa vita, giacendo «mezzo morto». I briganti che incontra gli sottraggono il diritto di vivere, gli sono nemici; uomini che hanno regolato la loro vita non sulle necessità del prossimo ma sul loro egoismo. E l’andarsene, abbandonando il malcapitato, dice una evidente mancanza di responsabilità, una fuga. Per Mazzolari è un non aver «coscienza dei propri atti e delle loro conseguenze»29.
c) Il sacerdote e il levita: percorrono la stessa strada, vedono l’uomo ma passano oltre (vv. 31-32). Don Primo ricorda che chi rappresenta la religione non è esente dal pericolo di avere un cuore duro. La fede esige l’onestà morale della persona. La pietà è espressione di un animo educato a riconoscere il volto di Cristo nel povero. La fede che si chiude in difesa sposando logiche di appartenenza a una classe, una casta, una nazione, una categoria, una razza o una religione ha come scopo non la carità ma «il proprio benestare»30. La mancanza di compassione è un negare la presenza dell’altro.
Per l’autore è fondamentale lo sguardo sull’uomo. Conta il fatto che sia ferito, abbandonato, in situazione di bisogno e non l’appartenenza religiosa o la condizione di peccato. La pietà si muove solo per il bisogno dell’altro in quanto uomo31. «Il rantolo di un morente ha il diritto di precedenza assoluta sugli impegni della vita ordinaria»32. E’ il bisogno del povero a costituire un appello alla coscienza morale della persona. La preoccupazione per la propria reputazione esige invece la ricerca di giustificazioni dietro cui nascondere la chiusura del cuore. Mazzolari insiste sul fatto che non è questione di specializzazione, perché la miseria dell’umanità è campo di lavoro per tutti. Dipende esclusivamente dalla bontà morale della persona.
La domanda sottintesa è la seguente: cosa fare della presenza del malcapitato? Pilato si è lavato le mani davanti a Cristo, l’innocente; Caino similmente si è dichiarato estraneo alla sorte del fratello. I due esempi biblici servono all’autore per dire che la responsabilità dell’uomo giunge «dove arriva l’amore»33. Gesù Cristo ha mostrato che la redenzione sta nel dare la vita, nel consegnarsi. E’ il culmine della storia in cui amore per l’umanità significa caricarsi responsabilmente della croce.
Il sacerdote e il levita guardano ma non vedono. Il guardare «con pregiudizio è peggio di non vedere»34. Parafrasando il salmista, l’uomo diventa come un idolo: ha occhi ma non vede35. Perciò, il modo con cui si guarda e la direzione dei propri occhi dicono l’interiorità della persona. Il passar oltre è uscire dall’umano, essere «fuori della realtà: fuori della vita»36.
d) Il samaritano: ha uno sguardo mosso da compassione (v. 33). Anch’egli non ha un nome ed è un viandante. Ogni uomo può ritrovarsi in lui. Si sente «legato alle sorti del mondo, ove la provvidenza lo ha destinato a vivere»37. E’ corresponsabile della salvezza altrui. La carità che lo anima si concretizza nel fermarsi e farsi vicino al povero maltrattato e abbandonato lungo la via. Il suo «chinarsi è un gesto materno»38 e richiama insieme l’incarnazione di Cristo, il chinarsi del Figlio di Dio sull’umanità fino a farsi uomo. «Il samaritano fa come Gesù, perciò Gesù è il samaritano, più che il samaritano, la Carità»39.
Il samaritano ha pietà dell’uomo perché uomo, non perché appartenente alla sua religione, razza, patria, casta o partito. Gli interessa il suo volto in quanto uomo: qui si manifesta la gratuità del gesto. Egli risponde positivamente all’appello che il bisognoso gli rivolge dal margine della strada. La condizione di emarginato dell’altro dà un senso pieno ai beni e alle ricchezze del samaritano: il tempo, l’olio, il vino e il denaro «valgono solo in rapporto a questa povertà che gli grida dal di dentro più che dal di fuori»40.
Don Primo spende alcune pagine per sottolineare la duplice possibilità di risposta all’appello del povero. L’uomo può diventare o crocifissore, responsabile delle sofferenze dell’innocente, o corredentore con Cristo, responsabile della vita del fratello. L’uomo nuovo è colui che sa riconoscere e assumersi la propria responsabilità. Come esempi di strumentalizzazione dell’altro l’autore ricorda due situazioni: quella di chi chiude una fabbrica licenziando gli operai pur di salvare i propri guadagni e quella di chi paga una donna sfruttandola per i propri comodi per scopi sessuali41. In realtà «il crocifisso ha segnato sopra ogni volto d’uomo il richiamo ineluttabile della nostra responsabilità. […] Il primo anello della solidarietà è nella mia responsabilità»42.
Se la responsabilità qualifica l’agire del samaritano nella situazione concreta in cui si trova, questo atteggiamento ne esclude altri, da considerarsi irresponsabili: la «neghittosità»43, il «giudizio»44, la ricerca dell’assoluta «perfezione»45.
Per Mazzolari l’indifferenza davanti alla sofferenza è borghesia dello spirito. Il bene che il samaritano opera vince il male degli altri. E il gesto di cedere il proprio posto sul giumento indica una priorità compresa a partire dal bisogno dell’altro. Nel prendersi cura egli «è consacrato sacerdote, prende il posto del sacerdote che tira diritto»46. L’autore vede pienamente realizzata, nella cura caritatevole, la spiritualità sacerdotale a lui tanto cara.
e) L’oste: è chiamato a continuare l’opera iniziata sulla strada (v. 35). Il samaritano ha mostrato che il bene nasce da un cuore buono e questa sua intenzionalità è in grado di rendere «buoni» anche i mezzi che utilizza. Si fa rappresentare da due denari e chiede la collaborazione dell’oste della locanda. Il bene si struttura in una condivisione di preoccupazione per le sorti del sofferente. «La collaborazione all’apostolato avvicenda, aiuta, continua armonicamente il lavoro e lo perfeziona. Il samaritano ricorda all’oste ciò che deve fare e l’aiuta a rispondere del fratello, davanti a Dio e davanti a sè»47. Il lasciare che l’oste faccia la sua parte è segno di rispetto per una diversa modalità di essere caritatevoli. Le mutevoli circostanze suscitano nella storia sviluppi e sfumature diverse nel fare il bene48. Ciò che conta è che la bontà morale del samaritano induca alla cura per il povero anche l’oste. In una forma diversa, ma la sua bontà morale è direttamente chiamata in causa. E la sincerità del suo agire è aiutata dal gesto del samaritano.
f) La conclusione della parabola è una ripresa della questione iniziale su chi è il prossimo. Gesù capovolge la prospettiva del dottore della legge. «Il prossimo è colui che vuol essere mio prossimo, che si mette in istato di esserlo»49. Il prossimo è dichiarato dall’animo di colui che gli sta di fronte. Solo la carità annulla le distanze e «cambia l’uomo in prossimo»50.
Il samaritano si chiude con il commento all’imperativo di Cristo: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso» (v. 37). Mazzolari lo interpreta come un invito alla non rassegnazione. Egli biasima la tentazione di chiudersi. Si tratta di vivere la nota ecclesiale della cattolicità come apertura universale. I particolarismi e i nazionalismi hanno causato guerre e anche crisi economiche. Per l’autore occorre ribadire la vocazione temporale del cristiano. Se la chiesa dà le direttive, è tuttavia compito dei cristiani trovare le realizzazioni concrete. L’immagine simbolo di una carità vissuta nel mondo è quella del lievito che fa fermentare l’intera pasta51.

4. La cura del povero come giustizia


L’indagine sulla responsabilità della coscienza morale cristiana in Mazzolari esige a questo punto una sosta sul povero. Il tema è molto caro al parroco di Bozzolo, centrale tra le sue preoccupazioni52.
Il modo di affrontarlo è caratteristico. Non gli appartiene una lettura ideologica della povertà, né la ricerca di soluzioni politiche immediate in grado di alleviare le condizioni miserevoli di tante persone. Il suo approccio è propriamente etico: la questione del povero è questione di giustizia sociale, di rapporti vissuti strumentalmente e di indifferenza condivisa a livello ecclesiale. La modalità con cui il tema è posto è soprattutto quella della denuncia. A monte vi è il contatto con la realtà quotidiana di classi sociali costrette dalla disperazione a rifugiarsi nel comunismo, l’esperienza della povertà umana durante le guerre, il bisogno di offrire una prospettiva di speranza ai ceti meno abbienti. Lo scandalo su cui riflettere è l’allontanamento dei poveri dalla chiesa. E’ segno di uno strappo che, per essere ricucito, chiede un supplemento di testimonianza e di giustizia53.
Chi sono i poveri per don Primo? Conveniamo con l’analisi di G. Vecchio che elenca diverse categorie al centro dell’attenzione del giornale Adesso: i disoccupati, i baraccati e i senza tetto, i contadini, i salariati agricoli, gli emigranti, i carcerati, coloro che sono soggetti a forme di schiavitù come le prostitute54.
Prima ancora che categoria sociale comunque il povero è categoria teologica. L’insegnamento evangelico rimanda al povero come al vero volto di Cristo sempre presente nella storia: il povero per eccellenza è Cristo55. Povero è inoltre ogni uomo in quanto tale, perché peccatore e bisognoso di salvezza.
Vi è dunque in Mazzolari un concetto analogo di povero. Indica un’indigenza che va dal piano economico-materiale ad un piano antropologico-teologico. Sta di fatto che il povero rappresenta il criterio oggettivo della responsabilità della coscienza morale cristiana. A partire dalle esigenze di chi ha più bisogno si può parlare di predilezione. La carità spinge il cristiano a non fare di sé il centro dell’azione, ma a mettere al primo posto l’oggettiva necessità del povero56.
Questa è la condizione per fuggire da ogni tentazione di arbitrarietà. Il povero esige gratuità e disinteresse. E la preoccupazione per le sorti degli ultimi costruisce una società improntata sulla giustizia. I poveri non possono ricambiare favori, non hanno voce da far valere, pagano le conseguenze delle crisi economiche e delle guerre senza poter reagire. Proprio per questo il dare risposte alle loro richieste non appartiene alla logica di privilegio ma è dovere di giustizia.
Come si declina per Mazzolari questa responsabilità verso i poveri? Quattro atteggiamenti sembrano essere irrinunciabili per una coscienza morale illuminata dal vangelo.

  1. Farsi poveri
La «rivoluzione cristiana» non si caratterizza per l’obiettivo di raggiungere i poveri, ma di condividere la loro povertà. La coscienza cristiana non può accontentarsi di fare qualcosa in favore dei poveri, ma ha bisogno prima di tutto di entrare nel loro mondo. Il metodo è quello dell’incarnazione. Mettersi su un gradino superiore rispetto al povero significa sposare una logica assistenziale. E’ invece necessaria la condivisione57. Questa è la vera rivoluzione intonata sullo stile di Cristo che si è fatto povero per solidarizzare con la povertà umana. Ciò significa che la coscienza morale deve rinunciare ad avere delle risposte predisposte a tavolino per saper leggere nella storia le urgenze e le gerarchie a partire dagli ultimi. Le rivoluzioni che promettono di cambiare la situazione materiale mantenendo ruoli di privilegio non sono vere rivoluzioni58. Dimenticano che è soprattutto necessaria una conversione interiore. Il povero non fa solo delle richieste concrete ma per prima cosa è presenza che mette in questione. Ogni atteggiamento di superiorità è l’anticamera della strumentalizzazione e di una persistente emarginazione.

  1. Tenere gli occhi aperti sui poveri
Il povero scomoda e inquieta le coscienze. Per questo è facile la tentazione di volgere lo sguardo altrove. «Chi ha poca carità vede pochi poveri: chi ha molta carità vede molti poveri: chi non ha nessuna carità non vede nessuno»59. E’ un problema di conoscenza e di senso della realtà. E’ in gioco il discernimento dello sguardo. Per Mazzolari non spaventa il fatto che ci siano dei poveri, ma piuttosto l’esistenza di persone che non li «vogliono vedere», non si accorgono delle loro esigenze, non prendono sul serio l’appello che deriva dalla loro condizione. In un articolo al giornale mantovano La Cittadella il 24 febbraio 1946 don Primo critica cinque tipi di conoscenza del povero: una conoscenza disumana che per godere delle proprie ricchezze ha bisogno di vedere alla propria porta dei miserabili; una conoscenza demolitrice che pensa male del povero come di colui che non ha voglia di lavorare; una conoscenza di sfiducia che vorrebbe moltiplicate le presenze dei poveri per poter garantire un agiato standard di vita; una conoscenza di paura che non è disposta a perdere le proprie sicurezze mettendo in questione le relazioni coi poveri; una conoscenza romantica o faziosa per la quale ci si arroga il diritto di firmare e parlare in nome del povero senza coinvolgerlo direttamente60.
La novità dello sguardo sta nel «vedere l’uomo nel povero»61, non il compagno o l’appartenente alla stessa razza, nazione, categoria, lingua. La responsabilità nasce da un cuore libero da interessi particolari, animato dall’unico desiderio di servire e promuovere l’umanità.

  1. Dare la parola ai poveri
E’ il titolo di una rubrica di Adesso, curata personalmente da Mazzolari sin dal primo numero. Si tratta di prendere sul serio i poveri senza servirsene a proprio interesse. Per evitare ogni strumentalizzazione occorre che siano i poveri stessi a parlare, a presentare le loro esigenze. L’ascolto da parte degli altri è condizione di possibilità per un aiuto che non sia funzionale al mettersi in mostra come benefattori.
«Conoscere è lasciar parlare»62. Occorre che il povero racconti le proprie sofferenze e le condivida per trovare vera accoglienza. E’ facile parlare dei poveri in terza persona; è comodo parlare ai poveri da una condizione di benestanti; è utile parlare in nome dei poveri improvvisandosi loro avvocati; ma «dare la parola ai poveri è un’altra cosa»63.

  1. Dare risposte di carità ai poveri
E’ la responsabilità di realizzare opere di giustizia. Mazzolari la sintetizza nell’espressione: «Il di più è dei poveri». Il possedere più del necessario significa tradire il progetto di Dio sull’umanità. «Di fronte al diritto di vivere, il diritto di proprietà scade fino a non esistere»64. E’ necessario dare dei limiti al possedere. Mentre però il marxismo vede nel possesso un’appropriazione del lavoro di altri, la concezione cristiana ritiene che nel di più ci sia non solo il lavoro di altri, ma anche «il capitale di Dio (terra, acqua, aria, ecc.)» e «il lavoro di Dio» (che è ovunque all’opera). Ne deriva che il sottrarre il necessario ai fratelli è rubare a Dio che mette a disposizione i beni per tutti. Quanto al problema su chi deve stabilire il di più, la risposta di don Primo è sicura: «Non il capriccio o l’insaziabilità di chi ha, poiché né l’uno né l’altro momento riesce a far posto a chi non ha. […] Non la concupiscenza di chi non ha, che sarebbe anch’essa una falsa misura, nonostante l’arsura che la fa comprensibilissima. Stabilisce il di più la necessità di chi non ha, misurata sulla carità del cuore di Dio»65.
La risposta all’ingiustizia sta in una carità che non è semplicemente fatta di elemosina. Essa è un piegarsi verso i deboli senza cedere ai potenti, è un fare di se stessi un’offerta66. E’ la persona coinvolta in tutta la sua interiorità. «Nel mondo dell’amore non valgono i criteri quantitativi. Il gesto della carità non si valuta dal cambiamento immediato ch’esso riesce a determinare nella realtà. […] Ma il suo valore è tutt’intero nella stessa impotenza, che lo riduce apparentemente a nulla più di “piccolo gesto”»67. La carità ha il potere di compromettere la persona nella storia concreta. Svolge un compito critico nei confronti delle contraddizioni del nostro mondo. Essa «è sempre una pienezza, qualche cosa di avventuroso, di militante, di aggressivo»68. Vale a dire, la carità è schierarsi, prendere posizione, stare dalla parte del povero. La coscienza morale è direttamente implicata.

5. Il Concilio Vaticano II


Il Concilio Vaticano II ha avuto diverse spinte interne per riuscire ad affrontare il tema di una Chiesa. Basterebbe leggere il Diario di Helder Camara, Roma, due del mattino. Lettere dal Concilio Vaticano II, per capire quanto fosse presente la preoccupazione tra diversi padri conciliari e come non ci fosse unanimità su questa visione. Il gruppo del Collegio belga, ispirato dal teologo Paul Gauthier, ha dato impulso alla riflessione. Il card. Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, il 6 dicembre 1962 in un memorabile discorso dà profondità teologica al tema della Chiesa dei poveri. Il principio unificante e vivificante del Concilio poteva essere solo la convinta dichiarazione che è giunta l’ora di poveri, al mistero della Chiesa madre dei poveri. Non si può intendere la povertà della Chiesa se non la si percepisce come lunga maturazione della coscienza ecclesiale. In questo senso appare col suo valore l’insegnamento di Mazzolari. La Chiesa è invitata a lasciarsi guidare dai segni dei tempi.
Il discorso di Lercaro al Concilio vuole fondarsi sul mistero stesso di Cristo. Egli chiedeva che nel lavoro conciliare il primo posto fosse da dare alla formulazione della povertà di Cristo. Il povero è scelto come sacramento di Cristo per salvare e operare nella storia. Si chiede inoltre il riconoscimento della dignità dei poveri, come membra privilegiate della Chiesa in cui Cristo stesso si riconosce. Egli è presente nei poveri, come lo è nell’eucaristia e nella gerarchia che ammaestra la Chiesa.
La prospettiva di Lercaro non è stata recepita del tutto, almeno nella sua ampiezza. Solo il terzo capoverso di LG 8 dà spazio a questa visione. La constatazione è che la Chiesa dei poveri non è stato centrale al concilio, anche se presente in alcuni aspetti. I vescovi sono più presi dalle questioni legate alla costituzione gerarchica della Chiesa stessa.
Il gesto di Paolo VI (12 novembre 1964) di deporre la sua tiara sull’altare, segno tradizionale del potere papale, come dono ai poveri suscita clamore e commozione. Ma rimane per molti versi un gesto isolato.
Il 16 novembre 1965, una quarantina di padri conciliari firmano al termine dell’eucaristia nelle Catacombe di Domitilla un patto, il cosiddetto «Patto delle Catacombe». Vi aderiscono in pochi giorni più di 500 vescovi. Si impegnano a portare avanti una vita di povertà, una Chiesa del servizio e povera, come aveva suggerito papa Giovanni XXIII. Intendono rinunciare ai simboli di potere e privilegio e vogliono collocare i poveri al centro della loro cura pastorale. Il testo diviene un riferimento per la teologia della liberazione latinoamericana.
Recita:
«1. Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende. Cfr. Mt 5,3; 6,33s; 8,20.
2. Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici). Cf. Mc 6,9; Mt 10,9s; At 3,6. Né oro né argento. Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, ecc.; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative. Cf. Mt 6,19-21; Lc 12,33s.
3. Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale nella nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di essere, noi, meno amministratori e più pastori e apostoli. Cf. Mt 10,8; At. 6,1-7.
4. Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore…). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre. Cf. Mt 20,25-28; 23,6-11; Jo 13,12-15.
5. Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi, priorità, o anche di una qualsiasi preferenza, ai ricchi e ai potenti (es. banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi). Cf. Lc 13,12-14; 1Cor 9,14-19.
6. Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro doni come una partecipazione normale al culto, all’apostolato e all’azione sociale. Cf. Mt 6,2-4; Lc 15,9-13; 2Cor 12,4.
7. Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi, ecc., al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati, senza che questo pregiudichi le altre persone e gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro. Cf. Lc 4,18s; Mc 6,4; Mt 11,4s; At 18,3s; 20,33-35; 1Cor 4,12 e 9,1-27.
8. Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti. Cf. Mt 25,31-46; Lc 13,12-14 e 33s.
9. Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui, all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio. Cf. At. 2,44s; 4,32-35; 5,4; 2Cor 8 e 9 interi; 1Tim 5, 16.
10. Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale – due terzi dell’umanità – ci impegniamo:
    • a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere;
    • a richiedere insieme agli organismi internazionali, ma testimoniando il Vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino più nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria.
  1. Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; così:
    • ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro;
    • formeremo collaboratori che siano più animatori secondo lo spirito che capi secondo il mondo;
    • cercheremo di essere il più umanamente presenti, accoglienti…;
    • saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione. Cf. Mc 8,34s; At 6,1-7; 1Tim 3,8-10.
Tornati alle nostre rispettive diocesi, faremo conoscere ai fedeli delle nostre diocesi la nostra risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere».
Sognare una Chiesa povera è questione di stile di cristianesimo. In passato i vescovi ai concili arrivavano con i mezzi messi a disposizione dall’imperatore o dal potere di turno. Ancor oggi nel mondo vi sono cardinali che vivono sotto scorta pagata dallo stato a causa delle loro posizioni intransigenti capaci di far indignare i poveri!
La pagina conciliare tratta il tema nel famoso punto c) di LG 8.
Il testo afferma:
«Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo « che era di condizione divina... spogliò se stesso, prendendo la condizione di schiavo » (Fil 2,6-7) e per noi « da ricco che era si fece povero » (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l'umiltà e l'abnegazione. Come Cristo infatti è stato inviato dal Padre « ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito » (Lc 4,18), « a cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10), così pure la Chiesa circonda d'affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l'immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo. Ma mentre Cristo, « santo, innocente, immacolato » (Eb 7,26), non conobbe il peccato (cfr. 2 Cor 5,21) e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo (cfr. Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento».
Il Concilio per la prima volta ha dato diritto di cittadinanza dogmatica al tema: richiamarsi alla via Jesu è un diritto riconosciuto nella Chiesa. Questo è il senso della portata dottrinale, al di là della marginalità o meno dell’argomento nell’insieme dei testi conciliari. Se affermo che oggi la Chiesa per compiere la sua missione è obbligata a percorrere la stessa via che seguì Gesù, nessuno mi può dichiarare eretico. Novità conciliare è la forma ecclesiae che non può rinunciare alla forma Christi.
La forma Christi è irrinunciabile nella Chiesa. Il testo ha la forma concessiva: «sebbene la Chiesa ha bisogno di mezzi umani». E’ la spia di un problema storico e teologico. Il problema è che la Chiesa non è la semplice continuazione di Gesù. La Chiesa è anche un novità rispetto alla vita di Gesù. Loisy diceva: «Cristo ha predicato il Regno, ma è sorta la Chiesa». Nella storia dei primi secoli non ci sono solo singoli vescovi (come con Ignazio d’Antiochia), ma esiste una gestione collegiale della chiesa (cfr a Roma con Clemente Romano). Il battesimo dei bambini è per esempio una novità ecclesiale rispetto all’ambiente della primitiva comunità cristiana. Ciò significa che la Chiesa interpreta e trasforma la forma di Cristo proponendo una propria forma.
Nel caso della povertà della Chiesa: la sua forma di religione di massa e il suo essere forma civile come si può configurare? La dialettica è aperta, ma la sua soluzione è scelta spirituale della Chiesa.
Povertà e azione della Chiesa nel mondo sono la vocazione della Chiesa stessa. Essa per comunicare agli uomini la salvezza di Cristo fa suoi gli strumenti di Cristo. Nel recente Sinodo sull’evangelizzazione (ottobre 2012) nessun vescovo ne ha parlato e questo conferma la difficoltà a recepire la questione. La Chiesa nella sua missione assume gli stessi atteggiamenti di Cristo. I poveri sono i destinatari di un abbraccio amoroso, perché in essi vi si riconosce l’immagine del suo Signore.
Il testo di LG risulta il testo più censurato del magistero postconciliare. E’ assente totalmente in Paolo VI, in Populorum Progressio, è evocato timidamente in Evangelii Nuntiandi 15 che parla di un generico dovere di continuare la missione evangelizzatrice di Cristo, senza riferimento allo stile. Anche Giovanni Paolo II lo ha ignorato. Ne ha parlato in Pastores Dabo Vobis, ma citando Optatam Totius 9 per esortare i singoli presbiteri alla povertà, senza far riferimento a LG 8: non è neppure sfiorato il tema della povertà della Chiesa in quanto tale. Ci si ferma alle virtù personali del presbitero. Anche Benedetto XVI non ha avuto una recezione significativa di LG 8.
Alla CEI in Evangelizzazione e testimonianza della carità, documento pastorale per gli anni ’90, l’argomento viene evitato e il peso del discorso è trasferito sull’esigenza di annunciare ai poveri e di servirli. Non si parla per niente di una Chiesa povera.
Unica eccezione sono le Chiese dell’America Latina. Esplicitamente si pensa ai poveri come all’asse della dottrina ecclesiale. Nel messaggio di Paolo VI a Medellin (1968), il Papa elogia le diocesi che mettono a disposizione i loro beni per i poveri. Parla di vocazione alla povertà di Cristo. La teologia della liberazione ha avuto il merito di guardare la storia a partire dagli ultimi, rappresentando l’unico tentativo credibile di proposta del messaggio conciliare presente in LG 8. Non andava forse appoggiata questa coerenza conciliare che altrove si è accantonato?
E noi oggi? Il card. C.M. Martini scriveva in Conversazioni notturne a Gerusalemme:
«Un tempo avevo sogni sulla Chiesa. Una Chiesa che procede per la sua strada in povertà e umiltà, una Chiesa che non dipende dai poteri di questo mondo. Sognavo che la diffidenza fosse estirpata. Una chiesa che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto. Una Chiesa che infonde coraggio, soprattutto a coloro che si sentono piccoli o peccatori. Sognavo una Chiesa giovane. Oggi non ho più di questi sogni. Dopo i settantacinque anni ho deciso di pregare per la Chiesa. Guardo al futuro»69.
Penso che si tratti per noi di raccogliere un’eredità che è ancora sospesa. Senza abbandonarci alla sfiducia, ma anche senza nasconderci le fatiche che questa conversione ecclesiale richiede. Ha ragione Mazzolari: «i poveri si abbracciano, non si contano»70.
Per far questo, occorre imparare ad abitare le periferie, come ci sta insegnando papa Francesco. Già don Primo lo affermava: «I destini del mondo si maturano in periferia. Nelle piazze e nei parlamenti si fanno gli affari e la politica; ma l’umanità si degrada o si eleva in periferia»71. Il motivo è ancora cristologico: «Chi non capisce il povero, non capisce Cristo: chi lascia fuori il povero, lascia fuori Cristo, che ancora una volta va a morire fuori delle mura»72.
E’ curioso notare come il parroco di Bozzolo abbia visto lontano pensando ad una Chiesa povera. Riflette in due passaggi dello scritto La parrocchia:
«La Chiesa è una compagine di anime che fanno comunione: e, nella comunione, la disciplina esterna e i mezzi esterni non hanno un valore assoluto né preminente. Servono, possono servire, ma se superano certi limiti, se soprattutto vengono sopravvalutati e adoperati in concorrenza, finiscono per indisporre quei di casa e quei di fuori. Nessuno viene raggiunto o impressionato in campo religioso da manifestazioni di potenza o di magnificenza, di fasto o di ricchezza»73.
«“Non prendete né bisaccia né mantello, né oro, né argento, né bastone, né spada…”. Questo parlare del Signore, per noi, non è consiglio, ma comando. Quel giorno che non avremo più né entrate né bilanci, quando saremo un po’ come gli uccelli dell’aria e i gigli del campo, lo scandalo porterà frutto. Questo nostro povero mondo materialista e calcolatore non può essere salvato sul piano del calcolo e della quantità. Dio ha sempre scelto le cose che non sono per confondere quelle che credono di essere; gli ignoranti per confondere i sapienti; i folli per confondere i prudenti; i poveri per confondere i ricchi»74.
Abbiamo impiegato cinquant’anni di vita ecclesiale per dimenticare questa profonda verità teologica: una Chiesa che anela al potere non evangelizza. Non è forse l’ora di invertire la tendenza? Non è questo un evidente «segno dei tempi»?
1 P. Mazzolari, La parola ai poveri, La Locusta, Vicenza 19633, 58.
2 Ibidem, 70.
3 Ibidem, 71.
4 Ibidem, 75.
5 Ibidem, 87.
6 Ibidem, 88.
7 Cfr P. Mazzolari, Quasi una vita. Lettere a Guido Astori, EDB, Bologna 1979, 54-57; Id., Diario II, 220-234.
8 Si vedano ad esempio tutte le incomprensioni con l’autorità ecclesiastica scoppiate in seguito alla pubblicazione di La più bella avventura nel 1934. Cfr F. Molinari, ed., La più bella avventura e le sue «disavventure».
9 Cfr P. Mazzolari, «Ritorniamo italiani», in Adesso 1 (1949) 5, 1.
10 Cfr tra gli altri, P. Mazzolari, Il coraggio del «confronto» e del «dialogo».
11 Cfr P. Mazzolari, Cara terra, 63.
12 Cfr P. Mazzolari, La più bella avventura, 67.
13 P. Mazzolari, Tempo di credere, 159-160.
14 Ibidem, 160.
15 Cfr P. Mazzolari, Tu non uccidere, 24-32.
16 Il saggio è del ’43. Il contesto in cui si colloca la presente riflessione è quello dell’annuncio di Cristo alla samaritana del dono in grado di saziare definitivamente la sua sete (Gv 4,10).
17 P. Mazzolari, Perché non mi confesso?, 63.
18 Ibidem, 63.
19 P. Mazzolari, Rivoluzione cristiana, 41.
20 P. Mazzolari, Impegno con Cristo, 24.
21 Cfr ibidem, 25. E’ discutibile la distinzione tra pagani e cristiani non in base alla fede ma alla responsabilità morale di adoperarsi a superare le ingiustizie. Appartiene comunque allo stile provocatorio di don Primo la volontà di coniugare religiosità e impegno sociale. La dissociazione tra i due elementi è segno di una fede insufficiente e di una deriva spiritualista.
22 P. Mazzolari, Il mio parroco, 57. Cfr anche Id., Impegno con Cristo, 57.
23 Cfr P. Mazzolari, Della fede, 151-152.
24 Cfr P. Mazzolari, Dietro la croce e Il segno dei chiodi, Bologna 19832, 68-70; Id., Rivoluzione cristiana, 25-32.
25 Cfr P. Mazzolari, Lettere al mio parroco, 43-44; Id., Impegno con Cristo, 89-92; Id., La più bella avventura, 182-183; Id., Perché non mi confesso?, 97-100.
26 Ibidem, 11-12.
27 E. Stein, Il problema dell’empatia, Studium, Roma 2012.
28 Ibidem, 27.
29 Ibidem, 45.
30 Cfr P. Mazzolari, Il samaritano, 58-59.
31 Cfr ibidem, 64-65.
32 Ibidem, 66.
33 Cfr ibidem, 68.
34 Ibidem, 71.
35 Cfr Sal 115 (113B), 5.
36 P. Mazzolari, Il samaritano, 72.
37 Ibidem, 93.
38 Ibidem, 96.
39 Ibidem, 96.
40 Ibidem, 103.
41 Cfr ibidem, 104-107.
42 Ibidem, 104.
43 Il credente non può rifugiarsi nella preghiera come giustificazione del non fare. Non è vera preghiera quella che spinge ad essere inerti, inoperosi. Cfr ibidem, 110.
44 E’ «un’altra maniera d’evadere o di chiudere il cuore» (ibidem, 111). Oggi parleremmo opportunamente di pre-giudizi da abbandonare se si vuole vedere le necessità del povero.
45 Spesso è nemica del concretamente possibile. Il samaritano opera coi pochi mezzi che ha a disposizione: «non attende una condizione ideale» (ibidem, 114). Il criterio che lo spinge a intervenire è quello dell’urgenza. Vede nella situazione un appello incondizionato. Chi pretende di avere la perfezione finisce per non agire mai.
46 Ibidem, 119.
47 Ibidem, 127.
48 Mazzolari a questo punto introduce una digressione sul pluralismo e sulla storicità nell’insegnamento sociale della chiesa. Da principi dottrinali comuni derivano possibili opzioni diverse a causa delle circostanze che cambiano: una riflessione sul peso delle circostanze in grado di garantire soluzioni diverse: cfr ibidem, 130.
49 Ibidem, 139.
50 Ibidem, 140.
51 Cfr ibidem, 150-155.
52 Non a caso nel Testamento spirituale don Primo si rammarica per i poveri che avrebbe potuto aiutare maggiormente e dichiara «la predilezione dei poveri e dei lontani». Cfr P. Mazzolari, Lettere ai Familiari, 161-165.
53 Cfr P. Mazzolari, I preti sanno morire, 77; L. Bedeschi, ed., Obbedientissimo in Cristo, 212-214; Id., «La Chiesa e l’Europa», in A.2 (1950) 16-17, 1-2.
54 Cfr G. Vecchio, «“Adesso”, i problemi della società italiana e la situazione internazionale degli anni Cinquanta», in G. Campanini – M. Truffelli, ed., Mazzolari e «Adesso», 113-124.
55 Cfr P. Mazzolari, La Via crucis del povero, 17 e Id., Il mio parroco, 50.
56 Nell’opuscolo La parrocchia don Primo parla di vuoti umani (povertà) colmati dall’amore: cfr P. Mazzolari, «La parrocchia», 45.
57 Cfr ibidem, 50-53 e P. Mazzolari, «Aperture col passo e col cuore del povero», in A.5 (1953) 15, 4-5. E’ questo il motivo che ha spinto don Primo a promuovere e sottoscrivere nel 1958 la famosa Lettera ai Vescovi della Val Padana (cfr A.10 [1958] 5, 1-2).
58 Cfr P. Mazzolari, Rivoluzione cristiana, 131-154.
59 P. Mazzolari, La Via crucis del povero, 18.
60 Cfr P. Mazzolari, Ho paura delle mie parole, 33-40.
61 Ibidem, 38. Si veda anche P. Mazzolari, Il compagno Cristo, 194.
62 P. Mazzolari, «Le apparizioni del povero», in A.1 (1949) 3, 3. Per quanto riguarda il tema della parola al povero si vedano M. Maraviglia, Chiesa e storia in «Adesso», 144-153; U. Vivarelli, «Dare la parola ai poveri secondo la lezione di don Primo», in A. Chiodi, Mazzolari nella storia della Chiesa e della società italiana del Novecento, 162-177; G. Sigismondi, La Chiesa: «un focolare che non conosce assenze», 175-194; G. Rumi, «La “scoperta” del povero. Appunti da una rilettura di “Adesso”», Imp. 1 (2004), 55-60.
63 Cfr P. Mazzolari, «La parola ai poveri», in A.1 (1949) 1, 3.
64 P. Mazzolari, «Il di più è dei poveri», in A.4 (1952) 15, 5.
65 Ibidem, 5.
66 Cfr P. Mazzolari, Impegno con Cristo, 161-162; Id., Perché non mi confesso?, 174-178.
67 P. Mazzolari, Impegno con Cristo, 164. Cfr anche Id., La carità del Papa, 47.
68 Ibidem, 165.
69 C.M. Martini, G. Sporschill, Conversazioni notturne a Gerusalemme, Mondadori, Milano 2008, 61-62.
70 P. Mazzolari, La parola ai poveri, 29.
71 P. Mazzolari, La parola ai poveri, 42.
72 P. Mazzolari, La parola ai poveri, 44.
73 P. Mazzolari, Lettera sulla parrocchia - La parrocchia, 86.
74 P. Mazzolari, Lettera sulla parrocchia - La parrocchia, 114.